Cogne, il Paradiso col Gran Paradiso

Se dici Gran Paradiso dici Cogne e se dici Cogne pensi alla natura, allo sci di fondo, all’enogastronomia.  

1544 metri slm, circa 1.360 abitanti suddivisi fra le otto frazioni e lo Veulla (il borgo principale, le chef-lieu), tutto distribuito su ben 213 kmq, il più vasto comune di tutta la Regione. Sant’Orso, vissuto tra il VII e l’VIII secolo, è il patrono del paese.

Una sola strada porta a Cogne. Lasciata Aosta si supera la Dora Baltea per attraversare Aymavilles. Sull’alto di una roccia morenica spicca il castello degli Challant le cui origini risalgono al XIII secolo. Quattro imponenti torri circolari coronate da merlature sono poste agli angoli dell’edificio centrale, quasi per proteggerlo. La strada inizia subito a salire rapidamente e si infila nella stretta valle scavata dal torrente Grand Eyvia. Superate le frazioni Epinel e Cretaz la strada si spiana. Si apre un’ampia valle e così si presenta Cogne, un gioiello racchiuso in uno scrigno di bellissime montagne. E anche se è una vista già conosciuta, ogni volta si rimane impressionati dalla sua bellezza. Sulla destra i prati di Sant’Orso, o meglio i Pré de Saint-Ours, dedicati al patrono del paese. Un’ampia distesa verde o bianca (dipende dalla stagione) di forma triangolare. Insigniti del riconoscimento “Meraviglie d’Italia” i prati ospitano la famosa ”bataille de reine”, il tradizionale incontro/scontro tra le vacche originarie della vallata. I prati sono stati fortunatamente protetti dallo Statuto Comunale che impone il divieto di edificazione. Al centro, lungo i sentieri o tra le piste di fondo, si erge una grande croce incastonata in una roccia solitaria. Una piccola targa ricorda la celebrazione di una messa da parte di Giovanni Paolo II, all’epoca Papa, il 21 agosto del 1994. Se dal sentiero dei prati si ritorna in paese, di fronte a noi incontriamo la Rue Dott. Grappein che sbocca in una piccola piazzetta: la Grandze Place Commune. Era il luogo nel quale, all’uscita dalla messa cantata domenicale, i cittadini ascoltavano “le créye, le gride, les cries générales”, cioè gli annunci comunicati da un addetto del comune. L’usanza ebbe inizio verso la metà del XVIII secolo e in seguito venne trasferita presso l’attuale Place Chanoux dopo la costruzione del nuovo Municipio o Maire. Sulla Grandze Place Commune si affaccia La Boutique de L’Artisanà, un emporio voluto e gestito dalla Regione Autonoma dove vengono offerti i tipici prodotti dell’artigianato locale. Si possono trovare utensili e sculture in legno, ceramiche, pizzi e simpatici souvenir. Lasciando la piazzetta la rue svolta verso sinistra ma lo sguardo si indirizza sul lato opposto dove si incontra la parrocchiale, anch’essa dedicata a Sant’Orso. Consacrata nel 1202 venne ricostruita nel 1642 dopo una disastrosa alluvione. Il campanile è stato riedificato nel 1840. In quell’epoca l’antico cimitero si estendeva sul fronte e sui fianchi della chiesa. In seguito è stato trasferito nell’attuale posizione, fuori dal borgo, di fronte ai prati di Sant’Orso. Il frontale della chiesa è caratterizzato da tre affreschi e da un portico. Il portico non è un semplice abbellimento, in passato aveva una precisa funzione liturgica. Nelle antiche chiese valdostane il portico veniva chiamato “porche de mariage” poiché al suo riparo si svolgevano i riti che precedevano il matrimonio ed inoltre veniva utilizzato per l’insegnamento della catechesi. Ogni volta che entro in questa chiesa a unica navata è per me una forte emozione. L’assito del pavimento mi trasmette la sensazione di entrare in una chiesa di alta montagna dove d’inverno si accede con gli scarponi pieni di neve e di ghiaccio. Percorro il corridoio centrale, l’interno è stato ridecorato nel 1960, sui due lati una serie di cappelle. Arrivo di fronte ai cinque altari lignei, intagliati e dipinti, in parte dorati. Un eccesso di barocco, no, non sono di mio gradimento ma ne apprezzo la fattura. Mi avvicino all’altare centrale e vedo un tomo aperto su una pagina dal titolo: “Parola del Signore a Sofonia”. Mi soffermo a leggere il testo: “Si, sopprimerò tutto dalla faccia della Terra ! Oracolo del Signore. Raccoglierò uomini e animali, raccoglierò gli uccelli del cielo e i pesci del mare; farò inciampare gli empi e cancellerò l’uomo dalla faccia della Terra ! Oracolo del signore”. Rimango stupito e in piena pandemia mi fa rabbrividire. Allora mi volto verso l’uscita e dall’ultimo finestrone, in alto a sinistra, filtra un raggio di luce che illumina l’organo posto sopra le porte. Installato nel 1772 venne ampliato più volte, anche grazie al contributo del re Vittorio Emanuele II, fino a raggiungere l’odierno numero di 1.636 canne. Uscito dalla buia chiesa mi ritrovo abbagliato dal sole. Due passi e sulla destra si incontra la “Casa dei Pizzi” sita nell’antica Casa della Comunità di Cogne. L’antico stabile risale al XVIII secolo, fu anche usato come scuola e in seguito divenne caserma dei Carabinieri. Solo verso la metà degli anni ’80 si insediò la Casa dei Pizzi. All’interno una piccola mostra e vecchie foto alle pareti. La Casa dei Pizzi ha lo scopo di mantenere la locale tradizione del tombolo che, arrivata a Cogne nel XVI secolo dai monasteri benedettini, viene ancora oggi tramandata da madre in figlia. Se la tecnica è arrivata da lontano, i punti invece hanno origini locali e sono legati all’ambiente e alla fauna. I punti preferiti dalle merlettaie di Cogne sono, per esempio, “joue de perni” (occhio di pernice) e “pavioula” (farfalla). Lo stabile successivo è la “Torre del Vescovo” o Chateau Royal. L’austero edificio caratterizzato da piccole finestre è nato tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII come Torre del Vescovo di Aosta, signore feudale di Cogne. Attorno al 1870 venne acquistato da Vittorio Emanuele II per essere utilizzato come residenza durante le battute di caccia allo stambecco. Dopo l’ultima ristrutturazione del 2006 è ora trasformato in residence. Ripercorro rue Dott. Grappein nella direzione opposta per imboccare nuovamente la via principale che qui prende il nome di Rue Borgeois. Sulla destra la Sala Congressi nonché cinema cittadino. E’ qui che nel bel mezzo della stagione estiva si tiene il GPFF Gran Paradiso Film Festival che quest’anno dovrebbe tenere la XXIII edizione. Una mostra di documentari provenienti da tutto il mondo aventi per tema la natura. Ancora due passi ed eccoci arrivati in Place Chanoux dove ha sede il Municipio. Basta girarsi verso destra e appare il massiccio del Gran Paradiso con tutta la sua bianca imponenza. Nella piazza si trova la famosa “Fontana di ferro” realizzata dal Dr. Grappein utilizzando la magnetite estratta nelle miniere locali. La forma simboleggia la vita dopo la morte e una croce, sempre in ferro, regge la bocca del getto d’acqua gelida. Sulla destra un piccolo monumento dedicato ai caduti della I e della II guerra mondiale ed un eroe della “Resistenza Partigiana”. Salendo nel borgo si arriva alla “Maison de Cogne Gérard-Dayne”, un’antica casa rurale del XVII secolo che ospita un museo etnografico. Interessante l’architettura tipica della valle basata sull’utilizzo del legno e della pietra. Alzo gli occhi verso il cielo e vedo le “miniere” o meglio i caseggiati di Colonna, posti a quota 2406 m, che per alcuni decenni hanno ospitato i minatori in un isolamento quasi monastico. Ma il mercato cambia, il mondo si evolve, e le miniere di Cogne perdono la loro importanza strategica e la convenienza economica. E così l’ultima miniera viene chiusa nel 1979, e tutto finisce. Ma molte sono le tracce che quella epopea ci ha lasciato: le gallerie delle miniere, ora visitabili, e il Villaggio Minatori che recentemente ristrutturato ospita l’esposizione permanente “La Miniera di Cogne”. Il percorso espositivo illustra la storia, la geologia dell’area e include l’esposizione di attrezzi, utensili e indumenti utilizzati dai minatori. Ora la vita e la caratteristica di Cogne è completamente cambiata: l’industria mineraria ha ceduto il passo al turismo, all’allevamento e alla produzione dei derivati del latte con al centro la fontina.

Place Chanoux, la piazza del municipio, sullo sfondo il Gran Paradiso – 22 aprile 2020
La parrocchiale dedicata a Sant’Orso – 23 aprile 2020
L’organo con le sue 1.636 canne – 23 aprile 2020

Il sogno, l’incubo e il risveglio

Quando il “Viaggiatore Viaggiante” non è all’opera, e cioè non è in viaggio, sogna.

Nella homepage di questo blog si legge: “Alla base di un viaggio c’è un sogno ..…”. E nel bel mezzo di quel sogno, il sogno si è trasformato in incubo. E’ arrivata la pandemia ! Ero giunto ad un buon punto, il progetto era quasi definitivo: la Norvegia in treno, ferry boat e aereo, isole Falkland e Svalbard. Crociera a bordo della Expedition, la stessa nave dell’Antartide, attorno alle Svalbard con sbarchi in banchisa e possibili incontri con orsi polari, navigazione verso la Groenlandia con sbarchi e visita ad un villaggio inuit, termine della crociera in Islanda. Tour dell’isola geotermica e bagni termali. Tutto cancellato, almeno per quest’anno. E fino a quando non ci sarà un vaccino … niente viaggi. Che tristezza, ma va accettata.

E la vita va vissuta, anche di fronte ad eventi imprevisti. Ai primi di marzo avverto che l’epidemia in Lombardia diviene sempre più pericolosa. Mi chiudo in casa un paio di giorni e poi decido di andare a Lillaz, frazione di Cogne, là dove la strada termina e la nostra civiltà lascia che la natura svolga il suo compito. Prati e montagne, torrenti e cascate, animali selvatici, flora di montagna. A marzo c’è ancora molta neve e quest’anno è particolarmente abbondante. Riesco a fare qualche sciata (di fondo) e una bella escursione completamente solitaria in Valleile calzando racchette (ciaspole) nel bel mezzo di una forte nevicata. Ma le autorità regionali anticipano la chiusura delle piste, bar e ristoranti. E così mi trovo solo in una frazione di circa 75 residenti. Qualche giorno più tardi arriva anche il divieto di passeggiare. Non si possono più percorrere sentieri, mi rimane solo la possibilità di fare la spesa nel piccolo supermarket e nei negozi. Vengo subito adottato dalla comunità locale, mi vengono dispensati sorrisi e sconticini. Qualche settimana più tardi mi vengono sottratti anche i sorrisi perché viene introdotto l’obbligo di indossare le mascherine. Ma la simpatia dei residenti rimane, il lei si trasforma in tu, qualcuno incomincia a chiamarmi per nome. Tutto sommato questa quarantena vissuta così non è neanche male. Mi mancano però le mie relazioni con amici e parenti e, prima di ogni cosa, mia figlia e le mie nipotine che nel frattempo affrontano le prime pappe. Il nonnino se le può godere solo con l’aiuto della tecnologia ma mi chiedo: cosa penseranno nel vedere il nonno in un piccolo schermo ?

E così ho voluto dedicare a Cogne, alla frazione Lillaz e a questa meravigliosa comunità alcuni articoli con l’intento di ringraziare tutti gli abitanti per avermi accolto con simpatia e ospitalità durante questi due mesi di isolamento dovuto al Covid-19.

NB.: le foto pubblicate in queste articoli sono state scattate con il cellulare durante i mesi di marzo, aprile e maggio 2020 durante la quarantena per COVID-19

Il parcheggio di Lillaz – domenica 15 marzo 2020
Il centro di Cogne al tramonto – 11 marzo 2020

Cap Engela – Missione compiuta !

Cap Engela è il punto più settentrionale del continente africano. Di fronte c’è solo il Mar Tirreno e quattrocento kilometri più su la Sardegna. Ma la cosa strana è che fino al 2014 era considerato Cap Blanc il punto più settentrionale del continente. Un assurdo geografico, un errore lapalissiano che non ha scuse e motivazioni, bastava guardare una cartina. Ora tutto è chiarito, meglio così. Parto da Biserta percorrendo La Corniche e quando lascio il mare passo attraverso colline coltivate e piccoli villaggi. Terminato l’asfalto affronto uno sterrato di terra e roccette che attraversa boschi di abeti  per poi arrivare su un largo scoglio che si tuffa in mare. Lasciata l’auto e camminando lungo le rocce si incontra un primo monumento: una stele in marmo nero con due rettangoli. Dal Capo di Buona Speranza a Cap Engela: circa 8.000 km in linea d’aria e più di 70 gradi di longitudine. Da un capo all’altro dell’Africa nel giro di due mesi. Una grande soddisfazione. Missione compiuta ! Qualche decina di metri sulle le rocce ed ecco un secondo monumento: una bellissima struttura in acciaio inox che rappresenta il continente e la suddivisione degli stati che lo compongono. Ci arrivo una prima volta, giovedì 13 settembre, ma piove e tira vento che non riesco neanche togliere il tappo della macchina fotografica. Sono costretto a desistere ed a ritornare il giorno seguente con un bellissimo cielo azzurro ed il mare blu. Le rocce di diverso colore, marroni e nere, di chiara origine vulcanica. Verso occidente un faro bianco e nero. Sono qui solo, emozionato, soddisfatto, molto soddisfatto, e felice al tempo stesso. Scatto le foto al panorama ed ai monumenti ma per fotografarmi sono costretto ad utilizzare l’autoscatto, dieci secondi e via di corsa davanti al monumento d’acciaio.

Dal Capo di Buona Speranza

A Cap Engela

Missione compiuta !!!

Bizerte

Biserta, città costiera, la città più settentrionale dell’Africa. Qui siamo più a Nord di Ragusa, Noto, Modica. Fa un certo effetto per chi come me ogni tanto ci capita in vacanza o per lavoro. Fondata intorno al 1.000 a.c. dai Fenici di Sidone è considerata anche l’ultima città a restare sotto il controllo francese. A Bizerte, nel gennaio del 1952, Bourghiba tenne il suo discorso col quale diede inizio alla lotta armata per l’indipendenza della Tunisia. E oggi ? Oggi mi sembra a metà strada tra l’Africa e l’Europa. Ed in effetti è lì, nel bel mezzo del Mediterraneo. La città si è sviluppata attorno allo Vieux Port, una stretta insenatura naturale a forma di L accessibile dal mare. Sulla destra il Fort de la Medina costituito da una torre massiccia, un portale moresco ed un lungo muro merlato. Sul lato opposto si trova il Fort Sidi Salem che oggi ospita un acquario. Nel porto sono ormeggiate le barche dei pescatori mentre sulle rive si affacciano bar e ristoranti tipici. Le case tutte affrescate di bianco con porte e finestre di colore azzurro. Dal porto si accede ai mercati. L’ortofrutticolo è come sempre pieno di colori e aromi, quello del pesce ha una grande varietà di pescato. Cernie, orate, code di rospo, cefali, spesso esposti con qualche pomodoro e peperone che danno una bella nota di colore. E’ un mercato pieno di luci che vanno a riflettersi sulle scaglie dei pesci e di suoni, di urla: calamar, calalmar. Dal pesce si passa alla alla carne: les boucheries. Manzi, agnelli, trippe di diverso tipo e pollame vivo. L’arteria principale della città è, ma guarda che caso, l’Avenue Habib Bourguiba dove si affacciano anche molte pasticcerie artigianali, a quanto pare i tunisini sono molto golosi di dolci.  Vedo anche molte donne che nel bel mezzo della mattinata mangiano coni di gelati mentre gli uomini affollano i bar dove siedono a chiacchierare tra un cafè ed un the, magari à la menthe. E anche io ne bevo un paio sul vecchio porto, adoro il the alla menta. Per pranzo sono sull’elegante terrazza del Restaurant Le Sport Nautique che mi è stato fortemente consigliato da un’anziana coppia franco-tunisina. Scelgo degli ottimi “calamar sauté a l’ail” accompagnati da un fresco Mornag, vino bianco secco prodotto a Sud di Tunisi. La sera invece sono al Petit Mousse, lungo La Corniche, mi viene servito un buon pesce grigliato ma quando il vino non è buono anche la cena perde di tono.

 

Bellezze e stranezze (della natura)

Con Bill, imprenditore canadese, viaggiatore solitario di 81 anni (!!!), mi trovo in piazza Menelik a discutere con un signore col braccio ingessato di itinerario e di costi. Solo lui tratta con noi, gli altri che lo accompagnano non possono parlare, comanda solo lui. Però alla fine troviamo un accordo: un’escursione di due giorni con auto e autista attorno al paese. Si parte la mattina seguente. Sosta per far benzina, controllo dei pneumatici, e poi si imbocca la “highway”. Una strada a due corsie percorsa da migliaia di camion che trasportano merci e carburanti dal porto di Gibuti verso tutta l’Etiopia. Un’incredibile numero di sorpassi. La strada sale tra montagne brulle e dopo circa un’ora si svolta a destra superando un arco bianco. Incontriamo un gruppo di babbuini dal sedere rosa ed il pelo lungo e folto. Superato un canyon, una lunga e profonda spaccatura dell’altopiano, appare il mare con un meraviglioso colore turchese spezzato da isole e penisole a forma conica di origine vulcanica. Attraversiamo un ordinato e moderno villaggio di case gialle e tetti azzurri, moschea inclusa. La strada supera alcune montagne e d’un tratto appare il lago Assal. Il turchese dell’acqua diventa bianchissimo verso le rive. Una luce fortissima e un grande calore avvolgono tutto. Siamo 155 metri sotto i livello del mare, il punto più basso di tutto il continente. Il lago, di origine vulcanica, è circondato da vulcani al momento non attivi ed è inserito nel più vasto fenomeno naturale della Rift Valley. Le acque del lago sono sature di sale, prive di vita ed è impossibile farci il bagno. Camminare sullo strato di sale un po’ secco ed un po’ umido è un’esperienza impressionante. La luce riflessa acceca, il caldo ed il vento bollente danno la sensazione di essere in fase di bollitura. Non resisto più di venti minuti e debbo tornare sulla terraferma. Ripartiamo e di nuovo si torna a vedere il mare, sotto la strada montagne di sale pronte per essere caricate sulle navi. Di fronte ancora isole a forma conica, la più grande è la cosiddetta Isola del Diavolo. Il nome deriva dal fatto che fino ad un paio di secoli fa gli yemeniti, che provenivano dal mare, accendevano dei fuochi e sequestravano i locali per poi trasformarli in schiavi. Attraversiamo un’area di rocce nere, frastagliate, sembrano appena uscite dalla bocca del vulcano. Una larga acacia con le fronde a forma di grande ombrello spunta tra le rocce. La strada presenta una grande crepa trasversale. Abdul, il nostro autista, ci mostra le rocce ai lati della strada che hanno una grossa fenditura. Sono le faglie in movimento che si aprono di due centimetri all’anno, da una parte la placca somala e dall’altra quella nubiana. Proseguiamo ed arriviamo su un grande costone roccioso con un punto panoramico su un bellissimo golfo. Sono parcheggiate un paio di auto davanti a qualche baracca. Ci fanno accomodare in una di queste, ombreggiata, corre un bel vento, è molto umido ma rinfresca. Ci viene servito un vassoio di spaghetti sconditi, una scodella di sugo al pomodoro e tonno, molto speziato, e qualche pezzo di pollo arrosto. Gli spaghetti sono un po’ scotti, il sugo buono, e l’insieme della situazione è straordinaria. Arriviamo in prossimità di Tadjourah, ci fermiamo all’Hotel Restaurant Le Golfe. Si entra attraverso un lungo salone con una grande collezione di berretti con visiera, biliardo e ping-pong, e un salottino etiope. Un’atmosfera del tutto particolare, l’interno è molto buio mentre fuori il sole risplende. Un bel bancone in legno ed un terrazzino sul mare con un finto pergolato ma pieno di colori. L’ombra ed il vento del mare danno una piacevole sensazione. Due birre freschissime e poi ci vengono assegnate un paio di semplici camere però con impianto di AC modernissimo. Senza sarebbe impossibile passare la notte. La sera si cena con pesce alla griglia e patate al forno. La mattina seguente, durante la colazione, conosciamo il signor Mondino, il titolare. Origini piemontesi, trasferito a Nice AM e poi finito in questo luogo fuori dal mondo. Riprendiamo l’auto per Tadjoura, la città bianca. Io in realtà vedo solo povertà, degrado e tanta sporcizia. Lungo il molo viene scaricato del pesce, in alcune baracche viene offerto del the, più oltre una moschea. Proseguiamo qualche chilometro per poi svoltare a destra lungo una pista molto sconnessa. Si apre un panorama splendido: una piccola baia con la spiaggia, colori del mare da sballo, una corona di montagne brulle alle spalle. Scendiamo a passo d’uomo sballottati da ogni parte ma la località è davvero speciale. Sabbia fine che diventa finissima in mare, l’acqua è molto calda e limpidissima. Una meraviglia, una nuotatina è imperdibile. Dopo una sosta a Le Golfe per il pranzo riprendiamo la strada in senso opposto. A un certo punto Abdul ci chiede: geotermia ? E perché no. Imbocca una pista sulla destra e la strada sale su terreni pietrosi e vulcanici. Spunta una struttura industriale. Una impresa islandese sta perforando la montagna alla ricerca del vapore. Bill, curioso e chiacchierone com’è, pone un sacco di domande ad un tecnico filippino che ci viene incontro e spiega molte cose. Nulla di straordinario, almeno per me, dopo essermi occupato per lunghi anni di geotermia in Toscana, ma debbo riconoscere che il luogo è unico e particolarmente inospitale.  Abdul ci porta oltre, parcheggia l’auto tra le rocce vulcaniche. Ci mostra una fenditura nel terreno e mi invita ad infilarci il braccio che debbo ritrarre immediatamente altrimenti mi si scioglierebbe dentro. Una decina di metri più avanti ci mostra una galleria naturale che probabilmente si è creata grazie alla forte fuoriuscuta di gas. Abdul si infila dentro e fa spuntare la testa da un buco parecchi metri più in là. Anche Bill si infila in un buco di dimensioni adatte alla sua corporatura. Imbocchiamo un’altra pista che porta sulla vetta di un cono vulcanico. Da lì sopra si vede il Lac Assal, attorno vulcani dormienti e grosse chiazze di calcare biancastro fuoriuscito non molti anni fa. Pare che il cono di fronte a noi non abbia più di trecento anni. Ripercorriamo in senso opposto la strada della mattina precedente per rientrare in città. Una nota divertente ? Prima di entrare in città si crea una coda, cosa è mai successo ? Un pick-up di marchio FIAT si è scontrato con un camion di marchio IVECO  🙂

La ristorazione a Gibuti

N.B.: qualche giorno fa per errore è stata pubblicata una bozza incompleta e con molti refusi. Ora viene pubblicata la versione corretta e completa. L’autore si scusa con i lettori  🙂  🙂  🙂

Anticamente Gibuti faceva parte del regno di Aksum (Etiopia), poi arrivarono i mercanti arabi. Con l’apertura del Canale di Suez arrivarono i francesi ma ci fu anche una immigrazione italiana seguita poi da cinesi e vietnamiti. Ecco signori, il piatto è servito e il menù è molto vario. Inoltre, pur essendo un paese islamico, Gibuti offre una forte tolleranza al consumo di bevande alcoliche, dalla birra al vino fino ai liquori internazionali. La città è costellata di ristoranti e piacevole è assaggiare le diverse specialità. Incomincerei da un ristorante da gourmet: Le Cafè de la Gare, un po’ in periferia ma elegante. Mobili di classe, personale vestito con stile ed eleganza, luci soffuse. C’è anche un bar col gioco del biliardo ed un bancone in legno massiccio. Al bar vengono anche serviti degli ottimi succhi frutta accompagnati da chips. Il menù è molto orientato verso la cucina francese e qui scelgo “magret aux girolles”, più chiaramente anatra con funghi finferli. Un grande piatto accompagnato da melanzane in umido e patate al gratin. Un vino rosso sudafricano lo completa perfettamente. Apprezzabile l’offerta di arachidi e olive condite come entreè. A poco più di cento metri di distanza si trova il Restaurant Saba con origine yemenite. Un locale molto semplice che però offre una sala condizionata. Qui non si sbaglia mai se si ordinano “brochette de poisson” che vengono servite con verdure in umido speziate e riso bollito. In piazza Menelik ci sono diverse opzioni. La prima sera, già un po’ affaticato dal viaggio, entro nel Time Out. Il proprietario è italo-etiope e quindi si cucina in accordo alle tradizioni dei due paesi. Il menù è piuttosto vario. La prima sera scelgo una pizza quattro stagioni. Molto simile alle pizze italiane con prosciutto cotto, olive, capperi e cipolle. Qui una birra ci sta bene ma poi seduti davanti al banco ci sono due italiani, un australiano e qualche gibutiano. Nasce subito la necessità di una bevuta in compagnia. Per pranzo il locale è un po’ più tranquillo, ordino penne all’arrabbiata. Cottura un poco abbondante, un buon sugo di pomodoro e peperoni verdi piuttosto piccanti. Per aperitivo vengono servite tre pizzette calde accompagnate da un sughetto molto piccante. Una sera con Bill, l’amico canadese, andiamo al Restaurant Vietnam. Scegliamo una zuppa con vermicelli e frutti di mare, a seguire un piatto di nem che ci viene servito con foglie di insalata e foglioline di menta. E l’ultima sera, sempre con Bill, La Chaumière, ristorante franco-cinese. Noi ci orientiamo verso la cucina cinese per gustare una zuppa. Anche qui scelgo una seafood soup con pesce, gamberi e verze. Piuttosto piccante e molto buona. E per concludere Bill ordina dei dumpling che poi condividiamo. Ci vengono serviti alcuni ravioloni grigliati col ripieno di carne accompagnati da una salsa di soia.

Gibuti

Gibuti, una superficie come la Lombardia e meno di un milione di abitanti di cui più della metà vive nella capitale. Il resto del territorio è un misto di paesaggi “bizzarri” (come scrive Lonely Planet): canyon, vulcani estinti, depressioni ed altopiani. Qui siamo nel bel mezzo del triangolo di Afar, lungo la Rift Valley, tra l’Eritrea, l’Etiopia e la Somalia. Ai primi di settembre la temperatura è ancora molto alta, siamo sempre attorno ai 38/40°, e anche la sera non c’è alcun refrigerio. Una, massimo due ore di passeggiata e ti devi rintanare in un locale, fortunatamente quasi tutti hanno l’aria condizionata. E proprio grazie a questo clima la città inizia a vivere molto presto la mattina ma verso l’una del pomeriggio si trasforma in una città fantasma. Le strade si spopolano, nessuna auto circola più, ma verso le cinque tutto incomincia a rivivere. Il centro è rappresentato dalla Place Menelik, ora 27 giugno 1977, la data dell’indipendenza del paese. Nel mezzo una stazione di polizia, qualche pianta e gli stalli dei taxi bianchi e verdi. Ai lati alberghi e ristoranti, banche e qualche negozio. Case e palazzi, perlopiù di colore bianco, in stile arabo con arcate moresche. Siamo nel cosiddetto Quartiere Europeo che si estende lungo la penisola, verso il porto. Percorrendo Rue de la Republique si incontra il bianco Palazzo del Parlamento e tanti altri palazzi ministeriali ed amministrativi. Ci sono anche un paio di chiese cristiane, una viene nientemeno chiamata cattedrale. Proseguendo si arriva al Plateau du Serpent con una grande rotonda, qui attorno vive la maggioranza delle persone di origine straniera. Verso l’entroterra invece, percorrendo Rue de l’Ethiopie, si arriva nel cuore della città araba. La vasta Place Mohmoud  è una grande stazione di autobus e su un lato si trova la moschea simbolo della città. Un bel minareto tondo, bianco, con due balconate in legno di colore verde. Vietato l’ingresso e anche fotografare qui è molto difficile. Lungo il Blvd de Bender si snoda un animatissimo mercato tipicamente arabo, le Marchè des les Caisses. Una caratteristica di Gibuti è il “khat” o “qat”. Si tratta di una droga leggera che consiste in una piantina con tante foglioline. I locali ne fanno un gran uso. Si masticano le foglioline in un lato della bocca fino a creare una palla che a volte va ad ingrossare la guancia. L’effetto ? Stimolante, crea euforia ma provoca anche dipendenza. Una vera schifezza.

Baragoi, ma perchè andarci ?

A metà strada tra Maralal ed il lago Turkana, posta su altopiano arido, riarso, polveroso e inospitale, questa è  Baragoi. Perché venire fino qui ? Francamente non c’è nessun motivo valido a meno che non si prosegua per Loyangalani. Ma uno degli obiettivi del mio vagabondare in Kenia era ritornare sui posti del mio precedente viaggio di quarant’anni fa. Quando arrivai a Baragoi rimasi colpito e confuso. Mi ricordo che, dopo aver visto delle persone con una acconciatura di sterco e terra con una piuma infilzata, mi chiesi: ma dove sono finito ? Fu Luisa a tranquillizzarmi. Tutte le informazioni che ho ricevuto in questi giorni mi dicono che è possibile andare e tornare in giornata da Maralal a Baragoi. Per un attimo però, ho dimenticato di essere in Africa. Partenza prevista del pullman: ore 9,00, perfetto ! Il pullman viene caricato fino all’inverosimile, una signora più larga che alta registra su un quadernetto dalla copertina nera tutti i bagagli che vengono caricati. La lista si allunga fino all’inverosimile ma alle 11,40 si parte. Mi viene assegnato il numero 7, dietro una suora, in fianco ad una signora. Sono l’unico occidentale, ovviamente, così mi viene offerto il sedile anteriore in fianco all’autista e a una silenziosa insegnante. La pista attraversa montagne verdi, il pullman sale a fatica e molto lentamente. Incrociamo un camion rovesciato che ha perso tutto il carico. Sosta nel bel mezzo delle montagne dove ragazze e signore offrono pannocchie di mais bollito, ai bordi delle strade vedo dei pentoloni neri e fumanti appoggiati su fuochi di legna. Usciti dalle montagne si apre un grande altopiano che si estende fino all’orizzonte. E’ molto arido, incontriamo molte pecore e capre, qualche cammello e due struzzi. Sosta a Martj, prima di entrare in paese controllo di polizia. Appena il bus si ferma viene assaltato da adulti e bambini che offrono ogni cosa: acqua, latte, frutta. Accorre anche un gruppo di ragazze che indossano teli gialli e rossi. Dopo cinque ore di viaggio arriviamo a Baragoi. Visto che non è più possibile tornare a Maralal in giornata mi preoccupo di trovare una sistemazione per la notte. Seguo le indicazioni dell’autista del bus e trovo una camera al limite del possibile ma pulita. Tre ragazzini che mi hanno accompagnato al lodge non mi mollano più. Chiedo loro di indicarmi dov’è la missione cattolica, mi accompagnano e mi dicono che c’è ancora un padre italiano. Imbocchiamo una strada laterale di terra rossa tra acacie e cactus. In fondo alla strada trovo una bella chiesetta, moderna, pulita, molto ben tenuta. L’esterno bianco a strisce verticali rosse, l’interno bianco e azzurro. Un ragazzo alla pianola sta provando le musiche per la messa di domani, oggi è sabato. All’esterno ragazzi e ragazze pregano e cantano davanti ad una piccola statua della Madonna. I tre ragazzini mi mostrano dove vivono i due padri che oggi però sono assenti. Mi mostrano anche i loro fuoristrada ed un terzo della Caritas. Sempre con molto orgoglio i ragazzi mi accompagnano da Maria, così mi dicono. Attraversiamo un prato recintato con piante e fiori, superiamo un arco di piante e si arriva in un piccolo spiazzo dove è stata costruita una grotta di cemento con una statua della Madonna. Lungo il percorso però, a fatica, riconosco la vecchia casa della missione. Una casa molto semplice, in mattoni di cemento, tetto in lamiera con un alto camino in ferro arrugginito. Si, è proprio qui. E’ qui dove ho festeggiato il mio venticinquesimo compleanno. Ospiti del missionario, che se non erro doveva essere un comboniano di Brescia, che ci offrì una semplice ma gradita cena. Ricordo ancora il menù: minestrina in brodo di pollo, pollo con patate, papaia al maraschino. Il liquore diciamo era l’unico segno di “ricchezza”. Una cena molto semplice che però è rimasta impressa nella mia memoria. Del resto i 25 anni si compiono una sola volta nella vita. Torniamo ad oggigiorno. Oggi ho saltato il pranzo perché ero in pullman quindi penso di cenare anticipatamente. Vado al pub-ristorante in fianco al lodge ma i ragazzini mi dicono che il locale è malfrequentato, ci sono sempre persone ubriache. Va bene, indicatemi un altro hoteli allora. Ci fermiamo in un locale posto sempre sulla strada principale del paese. I miei accompagnatori non mi hanno ma chiesto nulla, il più grandicello però mi aveva detto che aveva fame perché la mamma è sempre fuori casa ubriaca. L’alcoolismo è una grave piaga in molti paesi arretrati o in via di sviluppo. Ci sediamo tutti attorno ad un tavolo, ordino acqua per me, Coca Cola e Fanta per i ragazzi. Do you like it ? Con la testa fanno cenno di si. Ordino riso e patate in umido per me, riso e fagioli per i ragazzi. Aggiungo un po’ del mio riso, hanno divorato tutto, sul fondo dei vassoi in acciaio non è rimasto neanche un chicco. Li vedo soddisfatti. Oggi ho fatto la mia buona azione ! Facciamo due passi e mi fermo presso un negozietto, compero tre lecca-lecca, anzi quattro perché si è affacciato un altro ragazzo. Ritorniamo tutti soddisfatti verso il mio lodge, saluto i ragazzi, “andate a casa che sta diventando buio”. Loro proseguono lungo la strada che porta fuori dal paese ed io rientro al lodge. E mentre fa buio si interrompe la produzione di energia, restiamo al buio e senza acqua. Vengono distribuite delle candele ma l’acqua non tornerà più, nemmeno la mattina seguente.  Cosa si può fare ? Vado a vedere le stelle. Il cielo in assenza totale di luce è meraviglioso, ancora una volta la Via Lattea passa sopra la mia testa. Non mi resta che coricarmi presto. La mattina di buon’ora alla fermata del bus ritrovo l’autista che mi saluta molto calorosamente. Oggi le operazioni di carico sono più veloci, riusciamo a partire poco dopo le otto. L’autista mi promette che arriveremo prima dell’una. “Perfetto”, dico io. Si ripercorre la strada a ritroso, prima l’altopiano poi le montagne. Soste come all’andata, una a Martj e l’altra per le pannocchie bollite. Arrivati a Maralal faccio i complimenti a Ismail, l’autista. Ieri ci hai impiegato cinque ore oggi solo quattro. Tutto soddisfatto mi saluta con una stretta di mano e un bel sorriso.

Maralal, capitale dei Samburu

Maralal è considerata la capitale culturale e spirituale del popolo Samburu. I samburu sono una popolazione originaria del lago Turkana (sito poco più a Nord, in prossimità dell’Etiopia) che si è insediata su questo altopiano posto a 2.200 metri slm. I samburu sono simili ai masai, con loro convivono pacificamente ed hanno una lingua molto simile. Come i masai, le donne samburu indossano larghe collane di perline colorate, gli uomini portano sempre un bastone che spesso appoggiano sulle due spalle. Maralal ha ora strade asfaltate ma l’area destinata ai pedoni non lo è per cui c’è sempre fango e polvere. Moltissimi sono i negozi e le attività artigianali che si susseguono su queste strade. Fino a qualche decina d’anni fa il Buffalo House Hotel, famoso per le due corna di bufalo sul fronte, era un pò considerato il centro della città. Era così caro e lussuoso che quarant’anni fa non me lo potevo permettere. Ora è semplicemente la brutta copia di quello che è stato. Squallido, maltenuto, sono entrato per un the ma ci ho rinunciato. Sulla sinistra un porticato con molte donne in abiti tradizionali che vendono frutta e verdura. Attraverso un portone si accede in un ampio cortile circondato da negozi dove stazionano alcune vacche in vendita. Sul lato opposto della strada un grande mercato dedicato soprattutto all’abbigliamento. Vedo molti capi con il marchio Gucci (che quì si pronuncia gussi) e Jeep, anche se non ne circola una (le automobili sono quasi tutte di fabbricazione giapponese o coreana). Anche qui, come in altre città, la moto viene usata come taxi, con cinquanta o cento scellini (mezzo o un euro) questi ragazzotti ti scarrozzano ovunque. E quando piove sulle moto montano una sorta di lungo ombrellone per non bagnarsi. Il centro città è praticamente rappresentato da una rotonda con una pianta nel mezzo dove si affacciano un ristorante etiope di pessima qualità, le fermate dei matatu ed altri negozi. In questi giorni si tiene il Camel Derby, l’evento dell’anno. Concorrenti provenienti da molti paesi si sfidano sulla groppa di dromedari lungo una pista sterrata. Il Camel Derby è anche una grande occasione di divertimento per tutti. Già il giovedì, nei pressi della rotonda centrale, un un camion adibito a teatro mobile attira centinaia di persone. Vengono trasmesse musiche e canzoni, perlopiù rap o grandi tormentoni, ad altissimo volume. Un cantante/presentatore intrattiene il pubblico mentre alcuni ragazzi e ragazze ballano tutto il giorno. La gente accorre volentieri, canta e urla, qualcuno balla, il traffico è rallentato. Il sarto che ha il negozietto di fronte lavora mentre si gode lo spettacolo. Venerdì vado sul campo di gara, oggi si tiene una mezza maratona alla quale parteciperanno una trentina di persone, ma è un evento lo stesso e i corridori ce la mettono tutta. Sul grande prato che porta verso lo Yare Camel Camp, l’organizzatore dell’evento, una infinità di stand. Quelli più ufficiali sono dei bei gazebo bianchi, gli altri più artigianali sono costruiti con tronchetti di legno e teli. Molti sono dei luoghi di ristoro dove si friggono patate e si grigliano agnelli mentre quelli più particolari sono dei piccoli studi fotografici pieni di fiori e poster che ritraggono case ed auto di lusso. Molte sono Ferrari e Lamborghini e non manca papa Francesco. Quando torno la domenica pranzo in un ristorantino sotto un grande gazebo bianco, mi sembra il più pulito. Mi viene servito del riso bollito che accompagna un sughetto con patate e alcune verdure cotte. Complessivamente buono. Vengo invitato a sedermi assieme ad un gruppo di poliziotti e poliziotte, tutti molto cordiali. Sul prato dello Yare è stato costruito un palco dove parlano le autorità regionali e nazionali. Sull’erba sono seduti diversi gruppi di persone, uno più interessante dell’altro. Signore in abiti tradizionali pieni di colori con collari di perline e strisce frontali. Altre donne con gli abiti di tela di colore rosso, ed altre ancora di colore azzurro. Uomini a petto nudo ma coperto da collane, indossano copricapi colorati, teli avvolti sulla vita come gonne, calzettoni a righe orizzontali dai colori più strani:  bianchi, gialli, rossi, verdi, azzurri. Sul capo tutti portano un copricapo del colore della terra rossa che ricorda quelli in terra e sterco che venivano usati alcuni decenni fa. Sopra il copricapo quasi tutti hanno piume d’uccello o fiori. Tutti hanno il bastone e molti anche un grande coltello. Intanto sul grande prato un gruppo intona canti gospel. Al centro della fiera un’antica ruota arrugginita dove salgono bambini in maschera che viene mossa manualmente da un paio di ragazzi. Sul fianco un vecchio calcinculo mosso da un rombante e fumoso motore diesel. Ma quello che conta è che la gente si diverte. Ci sono famiglie, bambini che vengono truccati, altri invece guidano automobiline a pedali. Insomma una grande festa. E’ il Maralal International Camel Derby.

Lamu, Nairobi, Maralal. Che avventura !

Va bene arrivare in aeroporto sul dhow, veleggiando, ma assistere alla partenza del proprio volo no ! Sbarco al molo dell’aeroporto e mi dirigo verso il check-in, sono abbondantemente in anticipo. Nonostante ci siano solo tre voli di piccoli aerei il check-in va a rilento. Terminate le procedure mi bevo un black tea, tranquillamente. Vedo dei passeggeri che salgono su un anonimo aereo bianco, accende i motori e inizia le operazioni di decollo. La signora del bar vede che ho nel taschino la carta di imbarco di Safarilink e mi dice: quello è il tuo volo! Rimango di sasso. Agitazione nell’aeroporto, gli addetti chiamano il pilota via radio e l’aereo ritorna verso l’aerostazione. A piedi mi incammino sulla pista, si apre il portellone con la scaletta e salgo abordo. Con un pò di vergogna riesco solo a dire “sorry”. Ma come è possibile far partire un aereo senza un annuncio e senza aver contato le carte d’imbarco ? In ogni caso una volta a bordo mi siedo vicino ad un bel signore in camicia bianca. Italiano di Roma, Ermete, regista di pubblicità e cortometraggi. Sta andando a Nairobi per la presentazione di un suo corto ad un festival. Incontro molto interessante, per entrambi credo. Arrivato all’aeroporto Wilson di Nairobi il cellulare non ne vuole sapere di aprire le mail. Il nome e l’indirizzo dell’albergo che ho prenotato sono solo tra le mail, senza connessione non so dove andare. Un’agente di polizia mi offre il suo cellulare che invece è connesso. Tutto rotto ma riesco a digitare, però Outlook non mi vuole accettare ! Solo al terzo tentativo leggo le mie mail ed ho l’informazione che cercavo: Hotel Weston. “Bene” dice la signora, è proprio qui di fronte. Superi il cavalcavia e lo trovi. Bene, allora ci vado a piedi. Il cavalcavia pedonale ha due rampe di scale ripidissime e non è semplice affrontarle col mio bagaglio. Un signore si offre di aiutarmi ed io “no, grazie”, poi arriva una ragazza che insiste e si prende tra le mani le rotelline della valigia. Musuri sana, grazie mille. Lei va verso sinistra ed io a destra. La mattina seguente di nuovo in aeroporto, mi trovo con australiani e neozelandesi che saranno sullo stesso volo. A piedi sulla pista e riconoscimento bagagli, poi si sale. Un Cessna da 12 posti monoelica, che emozione. Capitano, copilota donna ed otto passeggeri. La copilota si gira, ci dà dei cenni sulla sicurezza e andiamo in pista. Decollo lento, sotto di noi si vede il Nairobi National Park e poi si entra tra le nubi. Dopo una mezz’ora le nubi si aprono ed appare il panorama. Aree verdi, campi coltivati, strade e villaggi. La copilota si gira e ci offre un cestino di caramelle di menta. Più avanti il panorama si fà più arido, l’aereo lentamente scende di quota, una decisa virata destra e si imbocca una striscia di terra. Atterraggio perfetto. Non sopporto quando i turisti italiani applaudono il pilota ma questa volta lo farei io. Scambio di sguardi e di sorrisi tra i passeggeri, siamo tutti un pò meravigliati. Siamo atterrati allo Samburu Oryx Air Strip, tre fuoristrada in attesa e null’altro. Chiedo un mezzo per andare a Maralal, forse la domanda è inopportuna. In tre minuti però il problema è risolto. Salgo in macchina con la famiglia neozelandese e attraversiamo il Samburu National Park. Incontriamo gazzelle, un solitario dik dik ed una famiglia di elefanti. Arriviamo al Lodge dove resteranno i neozelandesi, io, invece, vengo accompagnato da Carlo ad Archers Post dove ritrovo l’asfalto. In compagnia di Carlo e di altri ragazzi, uno si chiama Prandoni come un medico missionario, attendo un matatu. Un’oretta di attesa ed arriva il mini bus. Viene caricato fino all’inverosimile tant’è che non riesco a contare quanti adulti, ragazzi e bambine sono saliti. Non c’è spazio neanche per i bagagli, la mia valigia viene caricata sul tetto assieme ad un borsone che vengono fissati con una corda. Io sono seduto davanti, oltre all’autista una signora grassoccia con una bimba in braccio. Si parte verso Wamba, un chilometro e vai con lo sterrato, sconnesso e polveroso. Stiamo per perdere i bagagli legati sul tetto, sosta per stringere la corda. Ripartiti, all’improvviso vediamo il borsone scivolare sul parabrezza. Temo per la mia valigia che però riesce a rimanere sul tetto. Il borsone è stato travolto dal mini bus, strappato, gli abiti disseminati per terra. Il borsone viene messo nel bagagliaio che è già strapieno e si stringe la corda della mia valigia. Il motore, che si è spento da solo, ora non riparte. Giù tutti e harambee. Spingiamo il mezzo in avanti ma non riparte. Tutti dall’altro lato, anche una donna in abiti tradizionali spinge. Il motore in retromarcia riparte e riprendiamo il cammino. Qualche minuto più tardi urla dal fondo, si è aperto il portellone dei bagagli che si sono sparsi sulla pista. La strada attraversa terreni aridi e basse montagne costituite da grandi massi, curve e saliscendi, poi riprende una pista piana. Arriviamo a Wamba alle 17,30, troppo tardi per ripartire per Maralal. Si avvicinano dei ragazzi in moto e mi dicono che conoscono un lodge pulito. Ok, la valigia su una moto, io sull’altra con lo zainetto. Attraversiamo il villaggio e arrivo al Prince Lodge, una camera molto basica ma pulita. Mi costa l’equivalente di 8 € con prima colazione. Non ho pranzato quindi vado al bar-butchery in fianco. Zuppa imbevibile, un agnello immangiabile, passo al black tea. La mattina sono sulla strada dove partono i matatu, quello per Maralal è in partenza, bisogna attendere che si riempi. Dopo le nove si parte, cento metri e siamo fermi a far benzina. Ma non poteva farla prima ? La pista attraversa una zona arida per poi trovare delle colline. La qualità del fondo peggiora ed il matatu in salita tra le pietre va a passo d’uomo. Dopo parecchie curve si arriva su un altopiano semidesertico. Lungo il percorso troviamo molte greggi e qualche piccola mandria di bovini. Non mancano all’appello un paio di zebre ed uno struzzo. Attraversando i villaggi vedo sempre più persone in abiti tradizionali. Sopra Maralal si vedono dei nuvoloni, inizia a piovere ma quando arriviamo in città smette. A piedi, col mio valigione, vado verso il Seasons Hotel & Lodge dove mi aspettavano già ieri. Maralal, sono arrivato !