La Nordnorge si muove lateralmente per poi imboccare l’uscita del porto di Bodo. E mentre sulla sinistra scorrono le luci della città, sul lato opposto del fiordo la luna fa capolino dietro i monti. Dopo circa quattro ore di navigazione le luci davanti alla prua ci dicono che abbiamo raggiunto le isole Lofoten. Nel buio della notte il profilo dei rilievi viene evidenziato da una luce rosata, magnetica, irreale, come se ci fosse un grande incendio. Sull’altro lato la luna appare e sparisce dietro le nuvole. Il primo sbarco è piuttosto rapido, si riparte rapidamente per raggiungere Svolvaer, un importante approdo delle Lofoten. All’entrata del porto si nota una lunga struttura in legno di forma triangolare dove vengono appesi i merluzzi per l’essicazione. E così il merluzzo diventa stoccafisso. Svolvaer è famosa per la lavorazione ed il commercio del merluzzo tanto è vero che ogni anno, alla fine di marzo, si tiene una competizione mondiale di pesca al cod fish, il merluzzo per l’appunto. Tre potenti squilli di sirena annunciano l’attracco al molo. Qui la sosta è più lunga e ne approfitto per sbarcare anche se nevica. Tutto è bianco, la città praticamente deserta. Una banca ha una grande insegna luminosa che indica 68°, ed infatti siamo poco sopra i 68° Lat Nord. Non mancano un ristorante italiano ed una pizzeria. Poco sopra, il campanile di una chiesa tutta bianca indica le 10, devo allungare il passo, si salpa alle 22,15. Appena partiti la neve diventa sempre più ghiacciata e rimanere sul ponte 7 è praticamente impossibile. La nave si infila tra scogli e isolotti, l’andatura è lenta, i passaggi molto stretti, si naviga tra una luce verde ed una rossa che indicano la giusta rotta. Superate le Lofoten, al mio risveglio, il mare grigio è rotto solo da alcune creste di onde schiumeggianti. Mentre faccio colazione di fronte a due grandi finestroni si percorre lo strettissimo Tranoyfjorden, famoso per le sue forti correnti. In mattinata non manca una conferenza che tratta la storia delle spedizioni polari: Amundsen, ghiacci, navi e dirigibili. Mi fa un certo effetto vedere proiettata la prima pagina della Domenica del Corriere che riporta la tragedia del dirigibile Italia e del suo equipaggio. Dopo una serie di virate che seguono l’andamento del fiordo si passa sotto un alto ponte per attraccare a Finnsnes. La sosta è relativamente breve per cui faccio un rapido sbarco solo per scattare qualche foto. Si riparte con una luna gibbosa calante mentre qualche raggio di sole colora le nuvole di rosa. Si prosegue verso Nord attraverso uno stretto passaggio, a destra abbiamo la terraferma mentre a sinistra c’è l’isola di Senja che ospita il Parco Nazionale Anderdalen. Abbiamo superato i 69° Lat Nord, mi godo il panorama dei fiordi dal grande salone del ponte 7 che ha una vasta vetrata a 180° rivolta verso la prua. Che spettacolo! Ora i colori sono solo il grigio e il bianco della neve. Superiamo uno stretto con una forte corrente, la Nordnorge naviga lentamente. Appaiono le luci di una grande città, segno che abbiamo raggiunto Tromso. A destra si vede la terraferma dove spiccano gli undici “archi triangolari” della Cattedrale Artica, sul fronte della nave il lungo ponte che unisce le due parti della città e sulla sinistra il centro che si estende sulla costa orientale dell’isola di Tromsoya. Tre forti colpi di sirena segnalano l’entrata in porto del postale. Il suono rimbomba e riecheggia tra le colline circostanti, i brividi corrono giù per le gambe.
Porto di Bodo, la Nordnorge al mio imbarcoSvolvaerScorcio di FinnsnesLa Nordnorge all’attracco, sullo sfondo il ponte di FinnsnesAll’arrivo a Tromso spicca la “Cattedrale Artica”
Temperatura: minima – 2° massima 0° Meteo: nevicata notturna, sereno e nubi sparse in giornata
Terminal ferroviario, importante porto navale per le connessioni con le isole Lofoten, snodo della strada costiera norvegese, Bodo forse è tutta qui. E grazie a questi motivi sono sorti molti alberghi che fanno riferimento alle più importanti catene scandinave, creano un po’ di vita, danno tanta luce. Le strade innevate e le luminarie natalizie donano un’atmosfera piacevole. Del resto la città originale è stata completamente rasa al suolo dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, l’unica bellezza è rappresentata dalle montagne che circondano il fiordo. E talvolta … spunta la luna dal monte.
E’ domenica mattina ma è ancora notte qui a Trondheim. I passeggeri in attesa presso la stazione ferroviaria sono ancora assonnati, bevono un caffè, mangiano uno snack. Il treno parte lentamente, silenzioso, senza un fischio, senza far rumore. Si costeggia il fiordo e i binari sembrano appoggiati sulla sabbia. Verso oriente gli squarci di cielo tra i nuvoloni iniziano a schiarirsi. Arriva con cortesia ed efficienza un giovane controllore che mi informa che entro trenta minuti mi verrà servita la colazione. La prima classe, o per meglio dire la komfort, è un lusso che mi sono voluto permettere per godere al meglio questo tratto ferroviario, l’unico di questo viaggio. Il cielo si schiarisce mentre l’interno delle case, che sono ancora delle sagome scure, hanno finestre illuminate. La vista sul fiordo è da mozzafiato, la ferrovia lo costeggia. Il vagone è quasi vuoto, due signore in maglietta fanno colazione mentre una terza fa la maglia, la luna illumina il cielo. Dopo una lunga sosta all’aeroporto di Vaernes la linea si dirige verso l’entroterra ed al grigio del cielo e del mare si aggiungono il verde dei prati, il bianco e il rosso delle case e delle fattorie, le morbide cime delle montagne già imbiancate dalla prima neve. Una hostess mi serve la prima colazione: caffè, acqua e succo d’arancia, yogurt e panino imbottito con insalata e formaggio. Mentre tre daini corrono spaventati dal rumore del treno l’aurora (sono le 9,15) colora di rosa le nubi. Verso le dieci il sole sorge dietro un bosco di abeti, appaiono laghi ghiacciati, la neve copre tutto e il vento generato dal treno alza nuvole bianche. Si entra nella regione del Nordland, verso l’una il sole è già basso dietro le mie spalle, solo le montagne più alte sono illuminate. Si entra in una zona particolarmente fredda, il termometro del vagone indica – 5°, si incontra una bufera di neve. Al termine di una lunga galleria il turbinio finisce e il cielo rimane grigio. Vado verso il “Kafe”, la carrozza bar-ristorante, attraversando il vagone per le famiglie con tanto di spazio giochi. Mamme e papà se ne stanno seduti tranquilli mentre i bimbi corrono e giocano nella zona a loro riservata. Riprende a nevicare ma mi riscaldo con una zuppa di carne e verdure accompagnate da un calice di vino rosso. E’ l’ora del tramonto, sono circa le due del pomeriggio, le nuvole grigie si colorano di rosa e alle 15,30 è già tutto buio. Il treno va decisamente verso l’interno, la temperatura è attorno allo zero ma qui tutto, strade e prati, è completamente ghiacciato. Si supera Mo I Rana e si oltrepassa il Circolo Polare Artico. A Fauske si ritorna su un fiordo e si rivedono le luci riflesse nell’acqua del mare. Si costeggia il fiordo fino a quando viene preannunciato l’arrivo a Bodo, il terminal della linea Nord. Il marciapiede della stazione è ricoperto da un leggero strato di neve fresca. Quando arrivo alla testa del treno scende anche il macchinista e, pur lasciando il motore acceso, chiude a chiave il portello. MI saluta e rispondo con “You did a good job, bye”, ringrazia e si allontana. C’è del calore umano anche nel gelo nordico.
Il treno in partenza da TrondheimIl sole sorge dietro boschi di abetiStazioni solitarieArrivati a Bodo il macchinista chiude a chiave il treno e se ne va
Là dove la Norvegia inizia a restringersi lanciandosi verso Capo Nord, nel bel mezzo del Trondheimfjord, sorge Trondheim, prima capitale della Norvegia, oggi terza città del paese per dimensioni. Il centro storico, già illuminato per Natale, è racchiuso tra il fiume Nivelma e il fiume-canale (Kanalhavn) che creano una sorta di isola. Il centro della città è rappresentato dalla Torvet, una larga piazza rettangolare, dove nel bel mezzo sorge una altissima colonna sulla cui cima è stata posta la statua del re Olav Tryggvason che, nel 997, fece attraccare il suo veliero su un banco di sabbia dando così inizio alla storia della città. La pioggia rende la serata triste ma, essendo sabato sera, bar e ristoranti sono affollati. Io scelgo di passare la serata nel Microbryggeri, animato pub e birrificio. Bevo una lager di produzione propria, amara e dal sapore intenso, che mi viene servita alla spina da un lungo tubo di rame. Una luna straordinaria (solo ieri 19 novembre 2021 era piena) si riflette sul fiume Nivelma e illumina tutto il cielo.
In questi ultimi venti mesi la nostra vita è stata mutilata, stravolta, siamo stati persino costretti a ridurre le nostre libertà personali ed i nostri diritti costituzionali al fine di proteggere noi stessi e l’intera popolazione umana.
Ma ora che ci siamo vaccinati torna la vita, si può riprendere a viaggiare.
E allora eccomi qua, di nuovo in viaggio verso nuove esperienze, rincorrendo nuove emozioni.
Questa volta l’obbiettivo sarà affrontare la “notte artica” attraversando la Norvegia, puntando verso Nord fino alle isole Svalbard, dove d’inverno il sole non sorge mai, sperando di incrociare anche l’aurora boreale.
“To travel is to live” sarà il diario della mia “Notte Artica”
L’appuntamento è per oggi alle ore 14,00 presso il “forno”, una piccola casetta in legno che si affaccia al parcheggio. Sull’argine del torrente Urtier, a valle delle famose cascate e in prossimità del ponte, c’è un tronco d’albero. D’inverno diventa una bellissima colonna di ghiaccio ma d’estate si trasforma in “palo fiorito”. Puntualissimo arriva un camion con piattaforma mobile e sul posto alcuni volontari della frazione sono già in attesa. L’autocarro prende posizione e Liliano sale sulla piattaforma. Si parte dall’alto, i portavasi sono già posizionati e Liliano incomincia a depositare i vasi di campanule rosa e bianchi. I vasi sono una sessantina ed ogni vaso ha il proprio tubicino che porterà dell’acqua perché mi dicono: eh, la pioggia non è sufficiente. E in effetti qui quando batte il sole ha una potenza straordinaria, siamo sopra i 1.600 metri. A operazione ultimata l’effetto è molto piacevole e sarà un’attrazione per i turisti durante l’intera estate. Nel frattempo Luigi e Livio, con l’aiuto di un attrezzo mosso da un piccolo motore a scoppio, stanno tagliando dei tronchi di legno raccolti in Valleile. Si tratta di quei tronchi che la slavina di due anni fa ha sradicato e che adesso sono sufficientemente secchi. E mentre Luigi e Livio sono alle prese con il taglio Vittorio si occupa di accatastare i ceppi tagliati a ridosso della casetta del forno. I ceppi saranno poi utilizzati per il falò di Capodanno che verrà acceso durante la tradizionale fiaccolata ma, soprattutto, per il forno del pane. Il forno, fino a una quarantina d’anni fa, era situato dove adesso c’è la piccola piazza triangolare del borgo, in seguito fu poi trasferito appunto nella casetta di legno che dà sul parcheggio. Il forno, costruito in muratura, ha un frontale metallico piuttosto antico. Prodotto a Torino ha una scritta sopra la bocca: FORGNONE & RACCA. L’interno è piuttosto capiente, una cappa in cemento consente l’evacuazione dei fumi, sul fianco dei vecchi attrezzi in legno con lunghi manici che serviranno sicuramente per muovere le pagnotte. Si richiudono le porte e arrivederci al 30 dicembre quando il forno sarà riacceso e, secondo tradizione, si produrrà il pane valdostano.
Non esiste Regione italiana che non abbia le sue specialità. Anche la Valle d’Aosta non fa eccezione. Attraverso i gusti, i sapori, i profumi dei suoi prodotti tipici e dei suoi piatti tradizionali ci racconta la storia e le caratteristiche del suo territorio di montagna. Molte sono le specialità uniche e imperdibili, tra le tante citerei quelle che hanno ottenuto il riconoscimento DOP “Denominazione di Origine Protetta”: la Fontina, il Valle d’Aosta Fromadzo, il Jambon de Bosses e il Vallée d’Aoste Lard d’Arnad. Prodotti di qualità che vanno gustati in abbinamento con i migliori vini DOC regionali, tutti riuniti sotto un’unica Denominazione di Origine Controllata: “Valle d’Aosta – Vallée d’Aoste”, declinata in 7 sottodenominazioni di area e 15 di vitigno (fonte: lovevda.it, sito ufficiale del turismo in Valle d’Aosta). Si trovano vini bianchi secchi, fruttati o aromatici, vini rossi armonici o secchi ma sempre di corpo, vini da meditazione. Sono tutti vini di qualità che spesso richiedono un lavoro difficile e faticoso in quanto i vigneti si trovano su ripide pareti che raggiungono anche i 1.200 metri d’altezza.
Il territorio comunale di Cogne è tutto al di sopra dei 1.500 m quindi la produzione di vini non è possibile, è però il luogo ideale per la produzione della Fontina DOP. La fontina è un formaggio d’alpeggio prodotto con latte crudo di mucche valdostane e stagionato almeno tre mesi. Sembra che le prime tracce scritte che riguardino la fontina risalgono alla fine del Medioevo, si deve però arrivare fino al 1957 per poter registrare il “consorzio di tutela”. Durante il periodo estivo è normale sentire i campanacci delle mucche al pascolo. L’erba particolarmente grassa è l’ideale per la loro alimentazione ma anche d’inverno, quando si utilizza il fieno ricavato dai prati locali, è praticamente perfetta.
Oltre alla cucina regionale, e perché no anche un po’ francese e piemontese, vanno evidenziate le specialità tipiche di Cogne. Il primo posto viene sicuramente assegnato alla “Seupetta”: una zuppa molto densa a base di riso e fontina, super calorica, quasi un piatto unico. E’ un piatto di antica tradizione valdostana, un piatto povero della gastronomia di alta montagna che utilizza il prodotto locale e il riso che certo locale non è. Il riso veniva e viene prodotto nel vercellese ed era merce di scambio con i prodotti degli alpeggi. Il riso inoltre aveva il grosso vantaggio di essere un alimento a lunga conservazione e quindi particolarmente adatto a costituire una riserva alimentare per il lungo e rigido inverno. La trota di Lillaz, allevata nei due laghetti della frazione, si trova nei menù di tutti i ristoranti. Cucinata in modo diverso, grigliata o al cartoccio, coi broccoli o alle erbe, alle mandorle, tutti basati sulle tendenze dei diversi chef. E poi ci sono i dolci: il “Mécoulin”, una sorta di panettone con uvetta e insaporito con scorza di limone e rhum; la crema di Cogne: dessert al cucchiaio a base di panna, zucchero, cioccolato fondente, e un goccio di rhum, viene sempre accompagnata dalle “Tegole”: biscotti rotondi, molto fini e croccanti, a base di zucchero, farina bianca, mandorle e nocciole tostate, burro e albume d’uovo. Faccio notare che nonostante sia il génépy il liquore tipico della Valle d’Aosta, i dolci invece sono tutti a base di rhum. E’ interessante evidenziare che il primo distillato di canna da zucchero sia stato prodotto da un frate francese, tale Jean Baptiste Labat, utilizzando particolari alambicchi prodotti nella zona del Cognac. Già nel 1.700 la zona di Cogne intratteneva scambi commerciali col Piemonte e con la Francia. Non ci deve quindi meravigliare la presenza del rhum nelle ricette valdostane. Solo in seguito il distillato si diffuse nei Caraibi e nelle colonie d’America (fonte: lovevda.it).
Ed ora passiamo ad analizzare enoteche e ristoranti di Cogne, quì il terreno si fa più paludoso perchè i giudizi si fanno più personali, rischio di farmi dei nemici anche se non è assolutamente nelle mie intenzioni. Quando sono a Cogne o in Vallée ho l’abitudine di bere solo vini valdostani, potrei fare eccezione con un “carema” doc, un nebbiolo la cui produzione è consentita solo nel comune omonimo. Carema è il primo paese del Piemonte dopo Pont Saint Martin, il versante soleggiato è tutto ricoperto da antichi vigneti, il vino di assoluta qualità. I vini regionali più comuni della Cave de Onze Communes, Grosjean, Lo Triolet, Cave du Vin Blanc de Morgex et de La Salle, si trovano un po’ ovunque. Per qualcosa di speciale consiglierei La Cave de Cogne (Veulla, rue Bourgeois 50) che è l’unica vera enoteca del paese. La selezione dei vini è ottima, accompagnata da un buon servizio, speciali gli aperitivi, si può anche pasteggiare. Non vorrei spendere troppe parole riguardo le cucine degli alberghi. Alcune di loro però sono di assoluta qualità: Bellevue, La Madonnina del Gran Paradiso e Miramonti a Cogne Veulla, il Notre Maison in frazione Cretaz, il Petit Dahu in frazione Valnontey e il Belvedere in frazione Gimillan dal quale si può godere un panorama mozzafiato su tutta la valle di Cogne e il Gran Paradiso. Veniamo ai ristoranti. Inizierei con Lou Ressignon (Veulla, via Des Mines 22) che ha più di cinquant’anni di storia e che tutt’ora mantiene la tradizione dello storico locale fondato dal padre degli attuali gestori. L’icona di sempre è la “seupetta à la cogneintze” seguita dalla carbonada (spezzatino di manzo cotto nel vino rosso) con polenta rustica oppure una sella d’agnello al forno in crosta di pane con salsa al vino rosso. Da non perdere anche la trota di Lillaz e per finire la crema di Cogne. Segue Les Pertzes (Veulla, Rue Dr. Grappein 93) brasserie-enoteca. Per iniziare una bella “assiette cogneintze” con mocetta (carne insaporita con erbe, salata e lasciata riposare in luogo fresco, può ricordare la più famosa bresaola), lardo d’Arnad, salsicce, crudo di Bosses e castagne. A seguire una polenta concia preparata con burro e fontina oppure fonduta con crostini di pane o zuppa di cipolle gratinata. Per secondo “guancetta di vitello brasata” o carbonada con polenta. Ottima la cantina. Vicino al Municipio troviamo la Brasserie du Bon Bec (Veulla, Rue Bourgeois 72), un locale con arredamento in legno e staff in abiti tradizionali. Oltre ai piatti tradizionali offre proposte conviviali da condividere in famiglia o con gli amici come la “pierrade” (carni servite crude e cotte sulla pietra secondo i gusti del commensale), la “fondue chinoise” e la fonduta di toma stagionata. Di fronte ai prati di Sant’Orso troviamo il Bar à Fromage (Veulla, Rue Grand Paradis 21), un ristorante suggestivo con una ampia vetrata panoramica ed un arredamento di montagna molto curato che si articola attorno ad un vero focolare. Il menù affonda le sue radici nella tradizione valdostana e di Cogne con una particolare attenzione rivolta ai formaggi. Si può iniziare con “l’orto croccante in salsa d’acciughe”, proseguire con una raclette di formaggi di capra e concludere con uno zabajone al moscato d’Alba. E per finire saliamo a Lillaz dove troviamo Lou Tchappe, un termine in patois locale che significa “la pietraia” e in effetti alle sue spalle si trovano molti massi che costituiscono un’antica frana. Un locale moderno ma con tono rustico, cameriere in abito tradizionale, un bel dehor dove è possibile pranzare e prendere il sole. Anche qui troviamo i piatti della cucina tradizionale ma in particolare segnalerei la”soca” (zuppa con carne salada, cavoli e fontina) e i due piatti tipici di questo locale: i “malfatti du Tcappé” e cioè maltagliati di sfoglia fresca con prosciutto crudo, panna e un accenno di pomodoro; l’orzotto ai funghi porcini servito in un bellissimo cestino di parmigiano reggiano. Immancabile la trota di Lillaz che viene allevata nei vicini laghetti e in stagione funghi porcini fritti oppure ovuli in insalata con scaglie di grana. E prima di dire arrivederci restate in attesa del casalingo genepy che vi sarà offerto con un sorriso e tanta simpatia.
Un aperitivo presso La Cave de CogneInsalata di ovuliMalfatti du Lou TchappePolenta e salsiccettaPolenta valdostana con lumache
Il Parco Nazionale del Gran Paradiso fu istituito il 3 dicembre del 1922 e per questo motivo è il più antico Parco Nazionale d’Italia. Gestito dall’Ente Parco omonimo è situato a cavallo delle Regioni Piemonte e Valle d’Aosta, comprende e circonda il massiccio del Gran Paradiso. Oltre 71.000 ettari di estensione che, assieme al confinante Parco Nazionale della Valoise, in territorio francese, rappresenta una delle più vaste aree naturali protette d’Europa. Simbolo del parco è lo stambecco (Capra Ibex) che 100.000 anni fa viveva in tutte le regioni rocciose dell’Europa centrale. Fino al XV secolo era presente in tutto l’arco alpino ma lo sviluppo delle armi da fuoco ne decretarono la sua fine. Inoltre fu vittima della superstizione e della medicina di quei tempi. Le bellissime corna ridotte in polvere erano considerate un rimedio contro l’impotenza, il sangue si riteneva potesse curare i calcoli renali, lo stomaco serviva per superare la depressione. E così nel XIX secolo la specie era scomparsa in Svizzera mentre si contavano poche centinaia di esemplari sulle Alpi italiane e francesi. La sopravvivenza della specie si deve solo alla famiglia reale italiana. Fu infatti il re Vittorio Emanuele II che nel 1856 decise di proteggere gli ultimi esemplari per la propria riserva di caccia situata in Valsavarenche dove un gruppo di guardiacaccia li proteggeva dai bracconieri. Ora vivono circa 30.000 esemplari distribuiti in tutto l’arco alpino (fonte Wikipedia). Questa è una bellissima e anomala storia dove il potere, la ricchezza e l’egoismo si sono trasformati in una grande operazione di protezione e di sviluppo delle biodiversità. Dopo quasi cent’anni di accurato lavoro dei guardia parco oggi sono presenti, oltre allo stambecco, camosci, caprioli, marmotte, volpi, e recentemente hanno fatto ritorno circa una decina di volpi. Tra quei cieli bellissimi, sopra quei boschi e tra le vette imbiancate, volano aquile reali, gipeti, fagiani, pernici bianche e tante altre specie di uccelli. Nel complesso dell’area protetta si contano 168 specie di vertebrati di cui 52 mammiferi e 101 uccelli nidificanti (fonte Ente Parco). “Rallenta il ritmo, rimani nel Parco” è lo slogan coniato dall’Ente Parco per i suoi 90 anni di attività. E noi, cittadini frettolosi e stressati, sentiamo la necessità di abbandonare i nostri normali ritmi, le nostre abitudini, i nostri difetti, e ci lasciamo travolgere dalle bellezze naturali di quest’area meravigliosa. La Valnontey porta il visitatore verso il centro di questo territorio. Metti il Gran Paradiso nel tuo mirino e sali, ti rimarrà nei tuoi ricordi per sempre. Puoi salire a piedi percorrendo un facile sentiero che parte dai Prati di Sant’Orso di Cogne oppure d’inverno puoi salire con gli sci lungo la pista di fondo. Si può salire anche in auto: si imbocca la strada dietro il Municipio di Cogne e appena si esce dal paese si entra nella stretta valle scavata dal torrente Valnontey, affluente della Grand Eyvia che incontra tra Cogne Veulla e la frazione Cretaz. Usciti dalla valletta tutto un tratto il panorama si allarga, la strada si interrompe e le auto si debbono fermare nell’ampio parcheggio. Con un po’ di fortuna, nei mesi di maggio e giugno, si possono vedere camosci o stambecchi che brucano l’erba sul prato adiacente al parcheggio. In primavera questi prati posti a basse altitudini (1.700 m circa) si liberano per primi dalla neve e l’erba fresca è un cibo utile e prelibato per questi animali. Quest’anno è molto particolare, l’inverno è stato lungo e piuttosto nevoso, la primavera è arrivata registrando la totale assenza di esseri umani. In questo modo gli animali si sono sentiti liberi di occupare tutti gli spazi. E così mi capita che, appena lasciato il parcheggio, mi trovo di fronte una quarantina di camosci che “pascolano” come semplici caprette. Appena avvertono la mia presenza fanno tutti uno scatto e indietreggiano di una decina di metri, mentre il più vicino mi guarda con sospetto gli altri riprendono a brucare l’erba. Poco più avanti inizia il breve sentiero che porta al Giardino Botanico Alpino Paradisia. Si è facilmente portati a credere che il nome derivi dal massiccio del Gran Paradiso mentre in realtà deriva dal “Giglio di Monte” (Paradisia liliastrum, liliacea), una pianta spontanea dai delicati fiori bianchi. Sorto nel 1955 per volere del CdA del Parco Nazionale del G.P. ospita più di mille specie di piante di diverse origini e tipologie. Si possono ammirare piante tipiche delle Alpi e degli Appennini, piante esotiche e officinali. Lasciando il Paradisia si imbocca il sentiero che porta al famoso rifugio Vittorio Sella del CAI di Biella. Il percorso è agevole ma richiede un certo sforzo fisico in quanto si tratta di superare un dislivello di circa 900 metri. Il sentiero si inerpica nel bosco, salite e tornanti si susseguono fino a raggiungere una cascata. Al termine del bosco si compie una lunga traversata in diagonale per portarsi a ridosso degli ultimi pendii seguiti da alcuni tornanti, tutti sotto il sole, dove la fatica si fa sentire. E finalmente il sentiero si spiana, si entra nella conca, si raggiungono le case del Parco e finalmente eccolo, il Sella. Posto sull’Alpe del Lauson a 2.588 metri slm è un ottimo punto di partenza per escursioni e trekking mentre la sera è un perfetto luogo per incontrare gruppi di stambecchi. Fu Vittorio Emanuele II a scrivere la storia del rifugio. Arrivò in visita in questi luoghi la prima volta, solo trentenne, nel 1850 e quattro anni più tardi vi passò un lungo periodo. La caccia diventò la sua grande passione, fece così realizzare 300 km di mulattiere e 5 “case di caccia”. Una di queste fu costruita proprio sulla conca del Lauson. Umberto I continuò la tradizione del padre e fu così che grazie all’attività dei guardiacaccia il numero degli stambecchi e dei camosci crebbe notevolmente. Le battute di caccia furono riservate solo ai Savoia portando così alla scomparsa del bracconaggio. Nel 1913 il Re effettuò la sua ultima battuta di caccia, sette anni più tardi donò la riserva allo Stato Italiano che nel 1922 istituì il Parco. Nello stesso anno Emilio Gallo, all’epoca presidente del CAI di Biella, acquistò la “casa di caccia” del Lauson per trasformarla in rifugio alpino. In seguito il Gallo la donò alla propria sezione del CAI. Il rifugio fu così dedicato a Vittorio Sella, fotografo e alpinista biellese, nipote del famoso Quintino, Ministro delle Finanze e fondatore del Club Alpino Italiano (fonte: rifugiosella.com). Ora il rifugio può ospitare fino a 150 escursionisti e offre una cucina di montagna in due sale ristorante molto suggestive. Ricordo la mia prima visita, eravamo alla fine degli anni ’70, sempre con l’amico Giorgio. Ci ritornai vent’anni più tardi con mia figlia. Ogni volta che ricordiamo l’aneddoto finiamo con una bella risata. Arrivammo al rifugio particolarmente affamati e non lesinammo ad ordinare piatti con polenta e quant’altro. Quando mi presentarono il conto dissi qualcosa del tipo: a però, adesso anche i rifugi del CAI sono ben cari. La signora mi rispose gentilmente con queste precise parole: si ma erano cinque secondi ! Ebbene si, cinque secondi in due. Ci sono ritornato lo scorso anno, da solo, con questi ricordi che frullavano nella mia mente … e sorridevo tra me e me sotto i baffi. Ho ordinato solo un piatto: polenta con la salsiccetta in umido e un po’ di vino rosso. Bando ai ricordi e ritorniamo in Valnontey durante la quarantena da coronavirus. Dopo l’incontro con quella quarantina di camosci imbocco il largo sentiero che porta verso l’alta valle. Si costeggia il torrente Valnontey lasciandolo sulla destra fino a quando si arriva ad un ponte di legno. Il cielo è terso, di colore blu intenso, che contrasta col bianco del Gran Paradiso. Imbocco il sentiero che porta verso il versante opposto della valle perché so di poter incontrare qualche animale. E difatti appena arrivo sul prato in prossimità del bosco vedo una marmotta che corre veloce e subito dopo incontro un paio di camosci. Su un masso trovo un teschio di un animale, credo sia di un camoscio. Da quella posizione il panorama è splendido: si domina la vallata, i boschetti di abeti, la testata della valle. Ma quello che mi emoziona di più è sempre il prato che tra maggio e giugno è uno splendore grazie alla miriade di fiori di tutti i colori. Sono l’unico essere umano che passeggia, il silenzio è totale, il verde dell’erba è molto intenso. Tu chiamale se vuoi, emozioniii.
Una quarantina di camosci al “pascolo” in Valnontey – 4 maggio 2020La Valnontey e il Gran Paradiso – 4 maggio 2020Il Rifugio Sella – Luglio 2019
Quando voglio uscire da casa per immergermi tra la natura incontaminata, dove non ci sono tracce umane, dove posso rimanere solo e lasciare che la mia mente possa essere libera di vagare sopra ogni cosa, una sorta di meditazione, salgo in Valleile.
Da Lillaz si esce verso Sud, sulla sinistra una chiesetta e i prati mentre a destra si costeggiano due campeggi. Al termine dell’asfalto un sentiero con una staccionata di legno ci porta verso il bosco. Dopo la prima rampa, sulla destra, si può ammirare una bella cascata. La sosta è imperdibile, la vista molto suggestiva. Il Torrent de Valleile è costretto a infilarsi tra le rocce che ha eroso nel corso dei millenni, scende grazie a qualche balzo e finisce in una piccola pozza dall’acqua cristallina. Ho l’abitudine di fermarmi ad ammirare questa meraviglia naturale perchè d’inverno è un tripudio di neve e ghiaccio mentre in primavera ed in estate, grazie al disgelo, la portata dell’acqua aumenta ed è ancora più impressionante. Cento metri scarsi e ci si può fermare ad ammirare il panorama di Lillaz. Sotto i piedi appare il prato e sul fondo le case del borgo, tutt’intorno una corolla di montagne e, quando è sereno, là in fondo, sulla sinistra, appare il Monte Bianco. Si riprende a salire e si imbocca il largo sentiero che sale verso destra. Questo lungo tratto d’inverno si trasforma in pista di fondo. E’ un tratto in continua discesa, abbastanza pericoloso perché è piuttosto ripido, stretto, spesso ghiacciato. E in effetti, proprio per questi motivi, non sempre è aperto. E’ parte della famosa Marcia del Gran Paradiso che si tiene normalmente ai primi di febbraio e che accoglie sportivi e appassionati da tutta Italia, e perché no anche qualche straniero. Ma riprendiamo la salita, sulla destra un altro luogo magico dove amo fermarmi. E’ una sorte di radura dai profili morbidi, al centro del prato un piccolo altare costituito da sassi ed una croce in legno. Qui mi fermo sempre a pensare, il luogo mi trasmette una sorte di sacralità. Per i credenti la pace del luogo e la croce possono far pensare all’Onnipotente mentre ai non credenti può stimolare il pensiero della Madre Natura, non tanto come Ente Supremo che tutto comanda e controlla, ma come bellezza assoluta. Una visione laica ma altrettanto forte. Qui si trovano anche dei piccoli ricordi di persone decedute. Io mi soffermo sempre a guardare le due targhe che ricordano la morte e la vita dei due gemelli norvegesi Rijven, nati a Gravenhage il 22-9-1943. Hein deceduto sulla Grivola a soli 32 anni e Loek deceduto lo 01-11-2014 che ha voluto raggiungere il gemello in questo luogo magico. Ma riprendiamo a salire, il sentiero di terra e sassi è ricoperto da aghi di pino che ammorbidiscono il passo dell’escursionista e rende il mix di colori un’opera d’arte naturale. D’estate bastano un paio di scarponcini da montagna ma d’inverno, quando la neve è fresca ed abbondante, sono consigliabili le ciaspole mentre quando ci sono tratti ghiacciati è meglio calzare i ramponcini. Si supera un ruscello saltellando su un paio di sassi e si arriva sul ponte di legno che attraversa il torrente. E’ sufficiente voltare lo sguardo verso sinistra che si rimane estasiati nel vedere questa valle di sicura origine glaciale. Un fondo piano percorso dal torrente, un’atmosfera d’alta montagna anche se siamo solo a 1700 m. La vista verso la testata della valle riesce sempre a emozionarmi. Percorro il sentiero, a sinistra un prato dove un paio d’anni fa si era installato un pastore biellese con una piccola roulotte e le sue pecore al pascolo. Ho avuto la fortuna di conoscerlo lo scorso anno scendendo dal rifugio Sella. Un vero pastore aiutato da un cane tanto bello quanto intelligente. Perché un vero pastore ? Io non sono un esperto ma questo signore mi raccontava che non vendeva il latte, lo lasciava agli agnellini, evidentemente era interessato solo all’allevamento, alla lana. Proseguendo si arriva in prossimità di un enorme masso erratico probabilmente trasportato a valle dal ghiacciaio. Questo masso mi suscita sempre molti pensieri ed un vecchio ricordo. Più di quarant’anni fa ero a Lillaz con l’amico Giorgio, all’epoca eravamo compagni di cordata. Un giorno ci portammo tutte le attrezzature e provammo un sesto grado con le scalette. Era solo qualche metro, ma che esperienza ! Ora quando ci ripenso, sorrido tra me e me. Ciao Giorgio, so che mi leggi. In prossimità del masso un paio d’anni fa sono scese due slavine che hanno travolto e abbattuto centinaia di abeti. Un vero e proprio scempio naturale. I tronchi spogli e le radici estirpate dal terreno sono rimaste così come sono cadute. C’è voluto un anno intero per rimuoverne una piccolissima parte per liberare il passaggio del sentiero. Prosieguo e vedo correre sulla mia destra un camoscio. E’ molto veloce e solitario, probabilmente sarà un maschio perché le femmine in questo periodo dell’anno sono alle prese con i loro cuccioli appena nati. I versanti della valle sono costellate da numerose cascate, bellissime da vedere e molto amate dai cascatisti che in inverno le sfidano scalandole.
La Valleile rimane un ambiente naturale incontaminato, dove domina la pace e regna il silenzio assoluto rotto soltanto dallo scorrere del torrente e dal canto degli uccelli che volano in cielo. E se vi capita di veder volare un gipeto fatevi venire il torcicollo e seguitelo coi vostri occhi.
Il Torrent de Valleile, qualche balzo e una piccola pozza d’acqua cristallina – 12 marzo 2020Il sentiero che d’inverno si trasforma in pista di fondo – 3 maggio 2020
Un luogo incantato pieno di sacralità
Gregge del biellese – 9 luglio 2018Il Torrent de Valleile e in fondo il masso erratico La ValleileCiaspolata – 2 marzo 2020
“La mia Lillaz” usava dire mia moglie, “un presepino” aggiungeva. E in effetti d’inverno, quando tutto è innevato, quando tutto è illuminato dagli antichi lampioni dalla luce gialla, sembra davvero di essere entrati in quei micro-villaggi che si costruiscono tra il muschio finto dei presepi.
Famosa per le sue cascate, Lillaz, che andrebbe pronunciato evitando la zeta finale, si trova a 1630 metri d’altezza slm, 75 residenti, sorge tra il Torrent de Valleile e il Torrent d’Urtier. Attraversato l’Urtier si entra nel borgo costituito per lo più da case antiche costruite con l’utilizzo di pietre e legno secondo la tradizione locale. Molte sono già state ben ristrutturate mantenendo i canoni architettonici della valle, alcune sono in fase di restauro proprio in questi mesi. Si percorre la via principale per arrivare nella piazzetta a forma triangolare che rappresenta il centro del borgo: Place du Fo, la piazza del fuoco. Fino a circa quarant’anni fa, in luogo della piazzetta, c’era il forno a legna presso il quale le famiglie portavano le loro pagnotte per cuocerle. Una tradizione antica che si tramandava in tutte le comunità valdostane. La piazzetta era anche un luogo d’incontro, qui si tenevano le assemblee della comunità, qui si arrivava con le scodelle (“tass”) colme di calde zuppe di riso insaporite con erbe di campo. E a maggio, mese mariano, all’ora del tramonto sulle panche di legno si recitava il rosario. Sull’angolo a sinistra si incontra il bar Anais. Un bar “letterario” dove libri, giornali e riviste sono a disposizione della clientela composta da turisti del mordi e fuggi ma soprattutto da escursionisti, fondisti e cascatisti. In un angolo una pendola antica scocca le ore con precisione, sulle pareti decine di quadri in stile valdostano. Il bar ha origini antiche: negli stessi locali la nonna dell’attuale proprietario, dal 1880 al 1912, gestiva il “Café du bon vin”. Dalla piazzetta, proseguendo per la medesima direzione, si incontra l’antica chiesetta e superati i campeggi si sale verso la Valleile. Se invece dalla piazzetta si imbocca la strada sulla sinistra andiamo in direzione delle famose cascate. Appena usciti dal borgo una fontana in pietra ed un crocefisso ligneo segnano l’inizio del sentiero. Si accede immediatamente in un museo di geologia all’aperto dove si possono ammirare una ventina di massi provenienti dalle diverse aree geologiche di Cogne. Si trovano magnetite, quarzite, marmo impuro … ogni masso racconta l’interessante storia geologica e tettonica che ha costituito l’attuale catena delle Alpi. In particolare un pannello mostra come il versante di roccia che vediamo sulla destra del torrente era di origine oceanica. Queste rocce si erano originate sul fondo di un oceano, oggi completamente scomparso, che costituiva la placca oceanica della Tetide. Il “contatto tettonico” della placca oceanica contro le rocce continentali avvenne in modo “brutale” e questo fenomeno, risalente a diverse decine di milioni di anni fa, ha dato origine alle Alpi. Nel bel mezzo di tutto ciò, seguendo il percorso del torrente, arriviamo a scorgere le cascate. Qualche roccetta (attenzione d’inverno sono ghiacciate e quindi molto pericolose) e si arriva ai punti panoramici. Tre salti d’acqua per 150 metri d’altezza complessivi alimentati dal Torrente Urtier. Le cascate sono una grande meraviglia della natura. D’inverno il torrente è ricoperto dalla neve, i sassi distribuiti sul letto si trasformano in morbidi panettoni di neve. La cascata si trasforma in una meravigliosa struttura di ghiaccio, una perfetta palestra per cascatisti che accorrono numerosi tutti gli anni. Con gli inizi della primavera il ghiaccio si scioglie e la portata dell’acqua aumenta per raggiungere il suo massimo attorno a luglio. I numerosi getti scorrono e si infrangono tra le rocce creando uno spray che si diffonde tutto intorno e spesso, verso il basso, dei bellissimi arcobaleni. Ed è così, che quando vieni a Lillaz, in qualsiasi stagione dell’anno, te ne innamori….. per sempre.
Un tramonto su Lillaz Lillaz d’invernoSula pista di fondo – Le nubi incombono sul borgo – 21 aprile 2020Le cascate di Lillaz d’estateLe cascate ghiacciate