Tutto il mondo è paese. Lascio Malpensa in pieno caos: è in atto uno sciopero delle “low cost” e nel pomeriggio si aggiungono anche i controllori di volo. Questo è il Bel Paese nel bel mezzo di luglio. Arrivo a Copenaghen e trovo una situazione caotica, alla riconsegna montagne di bagagli, valige e trolley. E il mio volo per le Faroe è cancellato! La causa? Sciopero dei piloti della SAS. Però … però, però dopo qualche minuto d’ansia all’assistenza passeggeri mi trovano la soluzione: sono in lista d’attesa su un volo della Atlantic Airlines che partirà solo qualche ora più tardi. Grazie Peter e complimenti per la tua professionalità. E dopo un paio d’ore di volo, l’aereo scende sotto la densa coltre di nuvole che tutto copre ed appare un velluto verde che ha per frange le onde dell’oceano Atlantico. Ecco l’arcipelago delle Faroe. Atterro con la pioggia, la temperatura è di 12° contro i 37 di Milano. Dai tropici … all’autunno nordico. Però sono arrivato alle isole Faroe 😊
Verde e grigio sono, in questi giorni, i colori dell’arcipelago. Il verde dei prati, il grigio del cielo e del mare. Solo qualche raro raggio di sole muta il grigio nel blu marino e nell’azzurro del cielo. Cascate e cascatelle scorrono un po’ ovunque e scavano la roccia nerastra. Pecore dal vello giallastro, nero o pezzato pascolano sulle colline. Ai colori della natura l’uomo ha aggiunto il bianco, il rosso e il nero delle abitazioni. Così vedo in sintesi le Faroe. Diciotto isole al largo delle coste settentrionali dell’Europa, tra il mare di Norvegia e il Nord dell’Atlantico, 62° Lat. Nord. Sconosciute ai più, sono rimbalzate alla cronaca internazionale a causa della strage di delfini dello scorso settembre. 1.500 esemplari sono stati massacrati sulla spiaggia in un mare rosso di sangue. Tradizione e violenza sono stati condannati in tutto il mondo. Percorro in auto le strade dell’arcipelago dal Sud-Ovest al Nord-Est. Pochi i ponti, tanti i tunnel che attraversano le montagne o che uniscono le isole passando sotto il mare. Vestmanna, Klaksvik fin su a Vidareidi, praticamente il punto più settentrionale delle isole. Si arriva attraversando una galleria buia e stretta, al ritorno però preferisco percorrere la vecchia strada lungo il litorale Nord. Case colorate distribuite qua e là, qualche prato con le balle di fieno, pecore che belano sui prati e gabbiani che garriscono. Ad una estremità del villaggio, di fronte al mare, costruita sulla roccia scura, sorge un’antica chiesa protestante con il vecchio cimitero: alcune tombe in pietra e un paio di croci arrugginite sono rivolte verso l’orizzonte. Il cielo è sempre coperto da nubi grigie e la luce del pomeriggio è la stessa fino alle 23. Uno squarcio d’azzurro ha cambiato la prospettiva solo per un’oretta. Per cena mi gusto un ottimo cosciotto d’agnello arrosto. La mattina seguente il cielo è di nuovo grigio. Scendo fino a Torshavn per imbarcarmi con destinazione Islanda. Un porto commerciale ed uno turistico circondato da case moderne e antiche, bianche, rosse, blu, gialle, le più vecchie con il tetto tradizionale ricoperto da terriccio ed erba. Un lungo suono della sirena annuncia che il traghetto sta per lasciare il porto. Destinazione Islanda.
E’ giunta l’ora di tornare verso la luce, verso il sole.
Buio e gelo all’aeroporto delle Svalbard, buio e vento forte a Tromso, buio a Oslo. La mattina seguente mentre prendo lo shuttle verso l’aeroporto rivedo un’alba dai colori molto tenui. In volo verso Milano, sopra le nubi, ho il sole negli occhi. Una strana sensazione dopo una settimana di buio totale. Sole anche sopra le Alpi.
La “notte artica” è finita.
Volevo cogliere l’occasione per ringraziare Maria Grazia, Sabrina, Rita, Ercole per i vostri gentili messaggi che ho molto gradito. Gli stessi sono stati approvati da me ma, inspiegabilmente, non sono stati pubblicati dal sistema
“How we changed the law to make the real polar beer”
Come abbiamo cambiato la legge per produrre la vera birra polare.
Cambiare la legge! Questo era l’imperativo che si era posto Robert, il fondatore del birrificio delle Svalbard. A 22 anni arriva a Longyearbyen per lavorare alla miniera 3, ci rimane per 12 anni. Ha una licenza di pilota ma non trova lavoro, passa un anno in Svezia ma anche lì non ha fortuna, fa un viaggio in sottomarino e se lo compra, ritorna a Longyearbyen e finalmente riesce a fare il pilota. Ma Robert ha un sogno: produrre birra alle Svalbard. Purtroppo il sogno di Robert è destinato a restare una chimera perché, dal 1928, per legge è vietato produrre alcoolici sull’arcipelago. Robert non demorde, nel 2007 presenta una domanda al Ministero della Sanità al fine di superare il divieto. Per risposta riceve un’infinita serie di NO! La sua cocciutaggine non ha limiti, la legge deve cambiare, insiste, continua a presentare domande. E alla fine così succede. Dopo tanto battagliare nel 2014 ottiene il risultato tanto desiderato. Il 7 agosto del 2015 si produce la prima birra alle Svalbard. E’ una birra un po’ speciale perchè il 16% dell’acqua utilizzata per la produzione è da considerare “acqua glaciale”, cioè acqua direttamente ottenuta dal ghiacciaio Bogerbreen che ha 2.000 anni di storia. E siccome le birre sono molto condizionate dalla qualità dell’acqua (è l’ingrediente prevalente, circa il 90%), le birre prodotte localmente hanno un gusto … speciale. Il malto, altro ingrediente molto importante perché è quello che caratterizza il prodotto, proviene dalla Finlandia mentre il luppolo è di origine americana. Attualmente l’azienda ha quattro dipendenti, Andrea è il mastro birraio, i soci sono Robert e Anne Grete, sua moglie. Le tipologie di birra prodotte localmente sono otto alle quali si aggiungono alcune varianti prodotte in occasioni di eventi culturali o feste tradizionali, come il Natale o la “dark season”. Una menzione speciale la merita la Gruve 3 Stiger, Vol.: 11%, dedicata alla miniera 3 dove Robert lavorò per dodici anni. La birra della Svalbard Bryggeri viene consumata in loco, spedita in Norvegia, esportata in Svizzera e distribuita in tutto il mondo da Mack di Tromso. Ed ora passiamo alla degustazione. Si sale al piano superiore dello stabile dalla cui vetrata si vedono le caldaie, i fermentatori e i serbatoi, tutto rigorosamente in acciaio. Sui tavoli sono già pronti i cinque bicchieri, la nostra ospite spilla le birre secondo una sequenza consolidata da tempo:
Pilsner: Vol. 4,7%, leggermente dolce e fruttata. Consigliata per pizza e pasta 😊
Weissbier: Vol. 5,5%, chiara, non filtrata, molto fruttata
Pale Ale: Vol. 4,7%, più scura, prodotta con malto caramellato, fruttata, gusti di frutti tropicali
IPA: Vol. 7%, molto fruttata
Stout: Vol. 7%, molto scura e pastosa, ricorda la Guinness, piuttosto dolce
E al termine della degustazione, non soddisfatta, una ragazza del gruppo di austriaci che con me partecipa all’evento, chiede di assaggiare anche la Christmas Beer. Skoal, come si dice da queste parti. Salute
Da dx verso sx: Stout, IPA, Pale Ale, Weissbeer, Pilsner Skoal
Nel 1906 un americano di nome John Munro Longyear diede inizio alla estrazione del carbone. La città prende il nome di Longyearbyen proprio in sua memoria. Per decenni la comunità locale dipendeva dalla società mineraria, la Store Norsk. All’inizio dell’attività mineraria nel villaggio risiedevano solo uomini, minatori e personale di servizio. Solo più tardi arrivarono anche le donne. Si formarono così delle famiglie, si dovettero costruire delle abitazioni, delle scuole e così la comunità divenne una vera e propria città, seppur di piccole dimensioni. Alcuni decenni più tardi la Store Norsk fallì e dovette intervenire il governo norvegese per salvare la compagnia dalla bancarotta. In seguito l’attività estrattiva crebbe fino ad aprire sette miniere, attualmente solo la miniera 7 è attiva. La miniera 3 è invece visitabile e rappresenta una perfetta testimonianza della struttura industriale e delle condizioni di lavoro di cinquant’anni fa.
Immerso nel buio della notte artica un pullmino percorre la strada litoranea, supera il porto e sale la montagna lungo una strada contrassegnata da ripidi tornanti. La montagna è completamente buia, il cielo ha la tipica luce blu di mezza mattina. Il pullmino si ferma davanti ad un grande capannone dove noto un cartello illuminato che raffigura il logo aziendale e la scritta GRUVE 3 SVALBARD – ANNO 1971. Mi trovo casualmente In compagnia di tre polacchi di cui uno, il più chiacchierone, è laureato proprio in scienze minerarie. Ci accompagna una preparatissima guida. All’entrata dello stabile si trova una tipica portineria aziendale con un grande sportello di vetro dove i minatori, entrando, ricevevano un blocchetto metallico sul quale era riportato il codice personale, ad esempio 179. Una sorta di badge primordiale. All’interno della portineria un pannello era adibito alla raccolta dei blocchetti. Al blocco mancante corrispondeva la presenza della persona nelle gallerie. Grazie a questo semplice sistema si poteva conoscere il personale presente nelle gallerie, informazione particolarmente utile in caso di incidente. Superata la portineria si trovano esposti vecchi scarponi, caschi, lampade e i “lompen”, le tute indossate dai minatori. E così comprendo il motivo per il quale il centro commerciale della città sia stato chiamato Lompen, tanto è vero che di fronte allo stabile c’è la statua di un minatore con tanto di piccone. La guida ci fornisce molte informazioni. Le gallerie delle miniere sono scavate nel permafrost a circa 250 metri s.l.m. Il personale lavorava suddiviso in tre turni ed aveva tre tipi di mansioni: i più giovani, meno esperti, trasportavano il materiale scavato, un secondo gruppo utilizzava trapani e altre attrezzature per estrarre il carbone mentre i più esperti mettevano in sicurezza il tratto di galleria appena scavata. Era questa l’operazione più difficile ed anche più rischiosa. L’incidente era sempre in agguato e non molto raro. Questa miniera è stata in funzione dal 1971 al 1996 e, considerando tutte le 7 miniere di Longyearbyen, fino ai giorni nostri sono stati estratti milioni di tonnellate di carbone. La qualità di questo carbone è particolarmente elevata, arriva ad una percentuale del 95/97 % di purezza. E per questo motivo viene conteso dall’industria dell’acciaio, in particolare dalle case automobilistiche tedesche. Il carbone non è altro che carbonio, qualche traccia di idrocarburi, zolfo ed altri minerali. Il carbone è il risultato della trasformazione di resti vegetali, di piante, foreste che sono stati compressi, alterati chimicamente e trasformati dal calore e dalla pressione. Cosa significa tutto ciò? Che 60/70 milioni di anni fa le Svalbard erano ricoperte da foreste e piante tropicali e, a causa della deriva dei continenti, l’arcipelago si è mosso per migliaia di chilometri verso Nord, ha cambiato il clima e così tutto si è evoluto. A riprova di tutto ciò la guida ci mostra il fossile di un piede di un animale prestorico estinto che si è trasformato in carbone, straordinario! Mostrata la pianta delle miniere di Longyearbyen e il plastico delle gallerie della Gruve 3 ci vengono consegnati dei caschi protettivi ed entriamo in galleria. All’inizio si trovano i treni utilizzati per il trasporto dei minatori ed altri convogli carichi di carbone. Alcuni vagoni sono verniciati di giallo ed hanno delle simpatiche figure e disegni di pura immaginazione che rendono il mezzo di trasporto spiritoso e simpatico. Dopo le prime gallerie si arriva all’officina del fabbro. Qui siamo un po’ fuori dal mondo, lontano dalle strutture industriali, quindi le attrezzature ed i ricambi venivano costruiti sul posto da bravissimi professionisti. Sui banchi di lavoro si trovano ancora oggi i vecchi disegni costruttivi, i registri degli ordini, e poi morse, cesoie, un forno e il banco di forgiatura. Ci vengono anche mostrati i trapani elettrici che terminano con delle lunghe punte per perforare la roccia. Pesanti, molto pesanti, per me impossibili da maneggiare. Nel corso degli anni i trapani sono stati sostituiti da piccole “talpe” che penetravano la roccia grazie a denti metallici. Si entra poi nelle vere e proprie gallerie di estrazione. Qui siamo completamente all’interno del permafrost, l’ambiente è freddo e umido, nell’aria si notano goccioline di umidità ghiacciate. Camminiamo lungo i percorsi accidentati del treno. La guida ci mostra la composizione stratificata delle rocce. Rocce di origine marina, di sabbia pressata, strati di carbone nerissimo. La guida ci fa notare le gallerie laterali alte solo 60/90 centimetri dove i minatori erano costretti a lavorare con la schiena piegata praticamente a 90 gradi. L’impressione che ne ricavo è terribile. Il freddo, l’umidità, la polvere generata dagli scavi, le pesanti attrezzature. Un lavoro disumano anche se ben pagato. Molti minatori riuscivano a lavorare qui anche 10/12/15 anni per poi rientrare sulla terraferma con un bel gruzzolo ma quanta fatica, e quanti rischi. Al termine del nostro percorso arriviamo di fronte allo Artic World Archive. Dietro un grande paratia metallica c’è un archivio storico dell’umanità. Una sorta di magazzino della storia dell’uomo con l’obiettivo di “Protecting World Memory” cioè di proteggere la memoria del Mondo. A questo progetto hanno aderito alcune aziende private, l’UNICEF, l’ESA, la Biblioteca Apostolica Vaticana, una ventina di stati, Italia inclusa. Al termine della visita, durata più di due ore, il cielo è stellato, il vento gelido imperversa. Ritorniamo in città dove ci facciamo riscaldare da una zuppa preparata dalle signore di Fruene.
Il logo della Gruve 3Il blocchetto di riconoscimento del personaleCaschi, lampade, attrezzatureGalleria con il trenino I simpatici disegni verniciati sui vagoniL’officina del fabbroLa visita lungo le gallerieLe stratificazioni della roccia del permafrostLa paratia metallica che racchiude l’Artic World Archive
Un po’ albergo e un po’ ostello, fondato nel 1999 da Mary-Ann Dahle, il Polarrigg è stato ricavato trasformando le baracche dei minatori in un accogliente ambiente. Caldo l’ambiente, calda l’atmosfera. Un salone infinito con diverse aree di lettura e di conversazione ed un tavolo per poter mangiare in compagnia. A disposizione dei clienti c’è anche una cucina comune dotata di tutti gli utensili e gli elettrodomestici. E così capita che una sera mi metta ai fornelli per cucinare i mandilli, lasagne fresche bollite e condite col pesto, come usa a Genova. E come aperitivo? Campari col bianco, un inzolia bio. Naturalmente tutto è stato molto gradito dagli altri ospiti, io ho molto apprezzato la loro compagnia e la lunga chiacchierata. Vinterhagen è invece il ristorante annesso all’albergo, praticamente una serra in mezzo ai ghiacci con all’interno piante esotiche. Nel Vinterhagen, oltre a consumare le mie abbondanti colazioni, mi è anche stato servito un buonissimo filetto di pesce accompagnato da una insalata tropicale che passava dai pomodorini all’ananas, dai broccoli alla papaya. Oltre la serra si incontra un pub che vanta un bel bancone in legno. Siamo però fuori stagione, e il locale rimane deserto. Tutte le costruzioni del complesso sono in legno e le camere hanno una vasta gamma di soluzioni, dalla singola alla suite. Io pernotto in una piccola cameretta molto spartana, così come alloggiavano i minatori anni fa. Attorno alle costruzioni dell’albergo si trovano tanti reperti originali risalenti all’epoca mineraria: il vecchio arco in legno dell’entrata, i tralicci della teleferica, un pullman adibito al trasporto dei minatori, un vecchio battello. Tutto ciò è circondato e ammantato di neve e, durante la notte artica, sempre al buio col cielo che si fa blu un paio di ore al giorno.
Longyearbyen, Spitsbergen, isole Svalbard. Latitudine 78° 13’ Nord
Il sole non sorge fino alle ore 12,01 del 15 febbraio 2022
Temperatura (nel mio periodo di soggiorno): minima – 22,6° massima – 11° Meteo: neve, vento forte, cielo coperto e schiarite
La scoperta di questo arcipelago è attribuita all’olandese Wilem Barents che lo chiamò Spitsbergen. Tutt’ora la maggiore isola delle Svalbard mantiene questo nome che significa “montagne aguzze”. Per un lungo periodo sull’isola vissero solo pochi cacciatori immersi in una natura incontaminata e selvaggia. Solo nei primi decenni del XX secolo, grazie alle attività estrattive del carbone, Longyearbyen iniziò a svilupparsi ed ora conta poco più di 2500 abitanti. La mappa della città ricorda una grande T. Il tratto più corto si rivolge verso il mare dove si trovano la attività industriali e il porto. Sulla linea perpendicolare invece si estende la zona abitata e turistica che termina a Nybyen dove le vecchie baracche dei minatori sono state trasformate in abitazioni. La città è quindi circondata da montagne e dalle lingue di due ghiacciai. Tutto è costruito sul permafrost (terra costantemente ghiacciata) che qui ha uno spessore anche di 600 metri. Le temperature invernali sono molto rigide ma anche quelle estive di media stanno tra i 3 e i 7 gradi. Le temperature basse e il buio invernale richiedono un grande consumo di energia. Anche i tubi dell’acqua debbono essere riscaldati per evitare la formazione di ghiaccio. L’energia ha praticamente una sola fonte: il carbone. Questo ovviamente ha un forte impatto sull’ambiente (emissioni di polveri e CO2). La cosa incredibile è che nel caso la centrale termica entrasse in blocco, tutta la popolazione residente dovrebbe essere trasportata sulla terraferma! Inimmaginabile la confusione e i costi. Nella stagione invernale la temperatura nelle abitazioni e nei locali pubblici è piuttosto alta. In molti ambienti si sta perfettamente con una T-shirt mentre fuori imperversa una bufera di vento gelido e neve. Un grande spreco. L’imposizione “Togliti le scarpe” si trova spesso scritta all’entrata dei locali, soprattutto negli alberghi. La trovo una bellissima abitudine, ed è anche comoda. Qui vivono molti norvegesi ma anche tantissime persone di etnie differenti provenienti da diversi continenti. Mi sembra una comunità tranquilla, pacifica, dove tutti sono ben integrati. Se un’azienda offre un lavoro, viene offerta anche un’abitazione. Gli stipendi sono piuttosto alti e le tasse basse. In aggiunta, tutto alle Svalbard è tax-free e non si applica l’IVA. Una chiesa cristiana sul versante del monte, un grande supermercato dove si trovano prodotti provenienti da tutto il mondo, il Nordpolet un negozio per la vendita degli alcoolici, qualche centro commerciale, bar e ristoranti. La città però non è tutta qui, la cultura e lo studio sono molto presenti: asili, scuole fino al ginnasio, una biblioteca sempre a disposizione dei residenti 24/7, l’importante Svalbard Museum. L’edificio, basso e moderno, è condiviso con l’UNIS, la locale università dedita soprattutto alle tematiche naturali ed ambientali. Lo spazio espositivo del museo presenta diversi argomenti: la storia delle isole, le condizioni di vita dei primi cacciatori e dei minatori, molti animali imbalsamati ambientati nel loro habitat naturale, fotografie e documenti. Purtroppo, nel corso della mia visita, lo Spitsbergen Airship Museum non è visitabile. Pare abbia una interessante collezione di filmati, giornali, fotografie e documenti legati alla storia delle esplorazioni polari. Un’altra esposizione interessante è la Wild Photo Gallery dove si possono ammirare le fotografie straordinarie di due fotografi norvegesi. Ambiente e natura, animali selvatici, sono raffigurati attraverso un mix di immagini davvero meravigliose. Durante un tour guidato ho avuto modo di notare altre cose molto interessanti: un grande lago d’acqua dolce grazie al quale viene soddisfatto il fabbisogno idrico della città, centri di allevamento di cani da slitta dove ogni animale ha la propria cuccia, un centro di ricerca dell’attività magnetica solare con due grandi parabole che, viste così al buio, mi davano la sensazione di vivere un incontro ravvicinato del terzo tipo e non lontano, ma non visitabile, il famoso Global Seed Vault, la banca mondiale dei semi. All’esterno si vede solo l’ingresso della galleria ma all’interno, scavata nel permafrost, c’è una grande caverna dove potranno essere conservati più di due miliardi di semi per almeno quattromila anni! Insomma, una specie di “arca di Noè” dei semi vegetali. Sempre su questo versante si trova la miniera 7, l’ultima ancora in attività. Sul versante opposto invece si trovano ancora le antiche strutture in legno utilizzate all’inizio del secolo scorso durante il periodo di sviluppo dell’attività estrattiva. I grandi tralicci in legno delle vecchie teleferiche che servivano a trasportare il carbone dominano ancora oggi il panorama della vallata. Lungo il perimetro della città è tracciato una sorta di confine invalicabile oltre il quale vige il regno animale. Sul bordo delle strade si incontra il cartello Gjelder Hele Svalbard che sta ad indicare condizioni di pericolo a causa della selvaggina e degli orsi polari. Le armi sono quindi uno strumento di difesa localmente piuttosto diffuso. Attenzione però. Le armi sono vietate all’interno dei centri commerciali dove sulle porte d’ingresso sono esposti i divieti di accesso ai fucili ed alle pistole.
Pub, bar e ristoranti sono i luoghi di ritrovo della comunità e dei visitatori. Tutti molto accoglienti, con personale sempre molto gentile, sorridente, socievole e ben preparato. Il primo che vorrei citare è Fruene, che significa “signore” e, in effetti, il personale è solo di sesso femminile. Inserito nel centro commerciale Lompen è stato per me il quotidiano punto di riferimento per il pranzo. Dopo le pantagrueliche colazioni del Mary Ann e del Polfareren è praticamente impossibile pranzare, meglio una zuppa calda che riscalda tutto il corpo. E quindi ogni giorno un sapore diverso: cavolfiore, patate dolci, pomodori e, perché no, anche un bel gulasch. Da Kroa faccio invece un’esperienza natalizia, anche se parecchio pesante: il Christmas plate: costine di maiale al forno, polpette di maiale e salsiccia di grasso di maiale. Una bella “porcata” accompagnata da patate lesse e barbabietole stufate. La mia preferenza però ricade su Stationen, anch’esso ubicato nel Lompen. Da segnalare: zuppa di gamberi e scampi con crostini, risotto gamberi e parmigiano (finto). merluzzo al forno con purè e crostini di bacon. E per concludere, da dimenticare, da non ripetere … un hamburger di balena. Già il gusto non è molto gradevole ma soprattutto non è sostenibile. Le balene sono animali protetti e bisognerebbe non favorirne il mercato.
In questi giorni Longyearbyen si sta preparando a festeggiare il Natale. In tutti i locali pubblici si trovano alberi di Natale, la strada pedonale è illuminata e proprio domenica 28 novembre, accompagnato dalle musiche della banda locale, si è illuminato l’albero nello spazio centrale della città. Dopo l’accensione tre cerchi di persone hanno iniziato a ballare ruotando attorno all’albero. Contemporaneamente veniva distribuito del glu wine (vin brulé) mentre un vento gelido sollevava il nevischio ghiacciato.
Al momento della mia partenza mancano esattamente 75 giorni al ritorno dei primi raggi di sole.
Il cielo blu di Longyearbyen, il sole rimane sotto l’orizzonte per più di tre mesi all’annoLa strada pedonale del centro cittàL’interno dello Svalbard MuseumLa ricostruzione di un’abitazione di cacciatori Allevamento di cani da slittaLe danze attorno all’albero di Natale dopo la sua accensione
Il cielo è grigio a Tromso,, dietro una collina si vede ancora un po’ di luce rosa e gialla. E’ l’ultima luce naturale prima della lunga notte. Vedo tutti i passeggeri ben imbacuccati, io è da ieri che indosso la giacca a vento rossa dell’Antartide. E’ assolutamente necessaria. Un’ora e quaranta di volo ed eccoci a Longyearbyen, qualcuno salta di gioia sulla pista ghiacciata. I bagagli vengono distribuiti su un nastro ”controllato a vista” da un orso polare imbalsamato. La mia valigia è tra le prime ad essere consegnate. Ora si merita un nuovo autoadesivo.
Lo sbarco a Longyearbyen nella notte artica
La mia valigia viene consegnata sotto il controllo di un orso polare, ora si merita un nuovo adesivo
Tromso si è disvelata anche un luogo di grande interesse enogastronomico. Sono stato positivamente colpito dalla qualità e dalla modernità della cosiddetta “cucina artica”, basata sui prodotti locali ma con interessanti rivisitazioni e innovazioni.
Dragoy è perfetto per un pranzo veloce. Un bellissimo “banco del pesce” all’interno di uno stabile moderno. Pesci e crostacei artici sono ordinatamente esposti su un letto di ghiaccio. Chiedo al commesso se mi può preparare una zuppa di pesce. Naturalmente la risposta è positiva. Il tempo di salire al piano superiore per visitare una mostra di scienze ittiche e la zuppa è pronta, bellissima alla vista e buonissimo il sapore. Alcune verdure fresche e fette di pane completano la preparazione.
Un’altra interessante esperienza è stata la cena da Mathallen. Un locale moderno, molto frequentato da giovani, grandi vetrate e scaffali pieni di bottiglie di vino. Scelgo un merluzzo “pan fried”, prima bollito e poi passato in padella, accompagnato da bacon fritto, un pesto di sedano e crema di patate. Per rimanere allineato ai prodotti locali scelgo di bere una birra, la Mack IPA che ben accompagna il piatto.
Ma la vera esperienza multisensoriale la provo da Emma’s DrommeKjokken (cucina da sogno) consigliato dalla Lonely Planet. Senza dubbio una scelta perfetta. Uno stabile antico, al piano terra un bar al momento senza avventori dove però si possono gustare formaggi e snack ma al piano superiore c’è il famoso ristorante. Mi viene offerto un tavolino con vista sulla piazza centrale. Vengo servito da una giovane signora molto, molto professionale che mi racconta il menù e l’abbinamento coi vini. Come non concordare! Si inizia con un calice di riesling tedesco che accompagna una patata lunga un paio di centimetri con bottarga boreale (sic!) servita su una assiette di legno, a seguire un cubetto di carne di manzo con crema di brodo. Passiamo al pesce. Un halibut pan fried con salsa al vino bianco e carote arrosto. Quì mi viene offerto uno chablis della Borgogna, un bianco molto di corpo. Un liquore di lampone ghiacciato mi viene servito prima di passare alla carne. Segue un trancio di renna bollita e passata al forno con salsa al vino rosso, gocce di purè per contorno, cipolle croccanti e un rosso Tannat dell’Uruguai. Un vino corposo, tannico, 13,5°, molto buono e perfetto con la selvaggina. Un trancio di semifreddo alla cannella accompagnato da uno straordinario tokaj passito del 2011 conclude il tutto. Che cena! Certamente da sogno, e per il conto? Diciamo che ci pensa la carta di credito.
La zuppa di pesce di DragoyMerluzzo pan fried con cubetti di bacon, pesto di sedano e salsa di patate da Mathallen
Emma’s DrommeKjokken, “cucina da sogno”
Halibut pan fried con salsa al vino bianco e carote arrosto
Trancio di renna bollita e passata al forno con salsa al vino rosso, gocce di purè e cipolle croccanti
Tromso, estremo Nord Norvegia. Latitudine 69° 56’ Nord
Il sole sorge alle 10,34 e tramonta alle 12,26
Temperatura: minima – 9,4° massima -2,1° Meteo: neve, coperto e rare schiarite
Tromso viene definita la “porta dell’Artico” ed in effetti è sempre stato il punto di partenza delle prime spedizioni polari, Amundsen incluso. Per me rappresenta il trampolino di lancio verso le isole Svalbard. Città moderna, Tromso, ha però avuto il merito di conservare le tipiche case tradizionali in legno con tetti spioventi e tinteggiate con svariati colori. Nella piazza centrale si trova la Domkirke, una grande chiesa in legno con un bel campanile che termina con un puntale verde. Sul retro, rivolta verso del mare, la statua di Ronald Amundsen. Si percorre la Storgata, la via centrale, per raggiungere il Museo Polare (Polarmuseet). Uno stabile in legno di colore rosso affacciato al porto risalente al 1833 e adibito a magazzino doganale fino al 1970. Nella prima sala sono state ricostruite due tipiche ambientazioni: la prima mostra un cacciatore di renne con la sua preda e la seconda una baracca dell’epoca con alcuni personaggi e tanti interessanti particolari: attrezzi, pelli, animali. Segue la ricostruzione di una scena di caccia alle foche, molto ben fatta ma impressionante per la sua brutalità. Nelle sale successive tante fotografie storiche, i racconti delle spedizioni polari, modelli di dirigibili e vecchi aerei. E’ stata poi ricostruita una scena davvero raccapricciante: una trappola per orsi bianchi con tanto di animale imbalsamato. In una lunga scatola di legno veniva posta una attraente fetta di carne, quando l’animale arrivava per prendersela tirava una corda legata al grilletto del fucile che, ovviamente, sparava dritto alla testa dell’orso. Nel frattempo all’esterno si è fatto buio, le luci della città si riflettono sul mare, la temperatura rimane rigida e il cielo coperto. Andando oltre il centro si giunge alla fine della Storgata dove si incontra l’Olhallen Pub. Un’antica birreria annessa alla fabbrica, la Mack Olbryggeri. Fondata nel 1877, è da sempre una istituzione della città, un centro di attività e di storiche ubriacature. Mack produce tutt’ora 18 tipi diversi di birra che vengono consumate in tutta la Norvegia ed esportate in tutto il mondo. L’ambientazione della vecchia bottega è stata ben conservata con mattoni a vista e soffitti ad arco. La visita inizia con un documentario che racconta la storia del birrificio, una storia tutta famigliare che passa di generazione in generazione. E la voce narrante è proprio quella di un vecchio erede. Si scende poi nelle cantine dove si tiene ancora una piccola produzione di alta qualità, la produzione industriale avviene in fabbriche moderne al di fuori della città. Mack ha legato la birra alla musica: un QR code stampato sull’etichetta delle bottiglie porta il cliente a sentire brani di musica scelti in funzione della tipologia di birra. E così i serbatoi di fermentazione sono dipinti con le immagini di Elvis, Ringo Starr, Johnny Cash… Davvero innovativo. Oltre il birrificio troviamo Polaria, un museo multimediale che accompagna il visitatore attraverso i fenomeni naturali artici. Ancora più interessante è però l’architettura dello stabile: cinque blocchi di cemento bianco, appoggiati l’uno sull’altro, con effetto domino, che stanno a rappresentare blocchi di ghiaccio in movimento. Un bellissimo effetto visivo creato ed enfatizzato dalla illuminazione. Ci portiamo sul ponte Bruvegen che, attraversando lo stretto, unisce l’isola del centro città con Tromsdale, sulla terraferma. Lungo più di 1 km, 58 arcate, 38 metri sopra il livello del mare, è una bellissima opera ingegneristica. Superato il ponte ci troviamo di fronte alla Ishavskatedralen, la Cattedrale Artica. Gli undici blocchi triangolari di cemento bianco, di diverse altezze, affiancati l’uno all’altro, rappresentano i crepacci dei ghiacciai. Sul fronte una grande croce bianca regge due campane. Notevole è l’effetto delle linee di luce che attraversano gli “archi triangolari” e si riflettono sulla vetrata frontale.