La mia prima esperienza in elicottero si fa sospirare. Qui a Kulusuk splende un bel sole ma tra l’isola omonima e quella di Angmagssalik c’è nebbia. I voli sono bloccati, continuo a ricevere sms dalla compagnia che annunciano un ritardo dietro l’altro ma non arriva nessun volo da Tasiilaq. A metà pomeriggio ricevo l’informazione definitiva: oggi tutti i voli sono cancellati, se ne riparlerà domani. Mi riportano in albergo dove ormai mi sento a casa mia. Verso sera la nebbia arriva anche qui ma le vette più alte riescono a emergere. La mattina successiva di nuovo in aeroporto, ci potrebbero essere delle possibilità. Tutto lo staff si dà da fare ma i voli sono già pieni, è certa la mia partenza entro sera ma dovrei farcela anche prima. Mi viene consegnata l’ultima carta d’imbarco, il nuovo orario di partenza è fissato alle 13,30. E’ la volta buona. Beste, la signora turca al banco del check-in, mi sorride e mi augura buon volo. L’elicottero rosso della Air Greenland è nella sua postazione. Dieci passeggeri in tutto, riesco a prendere un posto accanto al finestrino. Il pilota in tuta nera ci chiede di allacciare le cinture e mi spiega come rimuovere il finestrino in caso di necessità. Bisogna tirare il nastro rosso ma poi aggiunge: non succederà. Il pilota prende posto, si infila il casco mentre noi indossiamo le cuffie contro il rumore. Un paio di minuti con le pale in rotazione e poi lentamente si alza. Una virata e siamo sul mare. Si superano scogli, isolotti, ghiacci e sul fondo montagne innevate. Un panorama mozzafiato, l’altitudine di volo è di circa quattrocento metri. Dieci minuti e siamo sopra Tasiilaq, scendiamo dolcemente e le ruote toccano terra.
Groenlandia sud-orientale, arcipelago di Ammassalik. Kulusuk è il nome dell’isola (8 x 11 km di estensione, la più meridionale dell’arcipelago) ma anche del villaggio principale. Un territorio molto esposto ai venti freddi del Nord-Est, affacciato all’oceano Atlantico e all’Islanda. Non ha particolari attrattive se si escludono le vedute particolarmente suggestive sui piccoli golfi e sul braccio di mare che la separa dalla vicina isola. Kulusuk ospita però l’unico aeroporto della zona, o meglio un air-strip: una pista in terra battuta dove possono atterrare piccoli aerei e gli elicotteri da/per Tasiilaq. Quattrocento abitanti complessivi, tutti di origine inuit. Dall’aeroporto una strada sterrata conduce allo hotel, proseguendo nella medesima direzione si sale un dosso al culmine del quale si trova un cimitero. Un centinaio di croci in legno, tutte bianche, tutte uguali. Non un nome, non una data, in accordo alla tradizione inuit. Solo fiori, niente marmi o monumenti, solo qualche sasso bianco che delimita l’area dove il corpo è stato seppellito. Silenzio assoluto, sento solo il vento che sibila tra le croci. Scendo il dosso e sulla sinistra trovo un laghetto che sembra alpino ma è solo a due passi dal mare. Dopo una curva a destra appare un panorama splendido: il villaggio con le sue case colorate affacciate alla baia con un mare blu intenso e tanto, tanto ghiaccio. Un paio di curve e incontro cani da slitta sdraiati beatamente al sole, poco più avanti ancora qualche croce bianca affacciata al mare. Sui bordi della strada slitte in legno per cani e motoslitte, l’antico si mescola col moderno. Casette rosse, gialle, blu, un caleidoscopio di colori. Al numero 92 si trova la chiesa luterana costruita agli inizi del ‘900. Legno tinto di rosso, finestre bianche e tetto grigio. Mi affaccio sull’altro lato dell’isola, il mare si apre, i ghiacci sono meno intensi. Non ci sono luoghi di ritrovo a Kulusuk, niente bar o locali pubblici. Vedo una scuola piuttosto moderna, uno stabile accoglie l’ufficio postale ed un piccolo store. E’ sabato pomeriggio, tutto chiuso fino a lunedì. Incrocio la signora Justine che mi saluta e sfoggia un inglese basico, due ragazzetti girano in bicicletta, incontro un ubriaco, due cuccioli di cane mi fanno una gran festa. Rientrato in albergo all’ora di cena mi siedo vista mare. Un francese trasferito a Nuuk da cinquant’anni mi racconta tutta la sua vita ma anche interessanti dettagli groenlandesi. Attendo la mezzanotte in camera seguendo il movimento del sole che da Ovest si muove verso Nord. Arriva la bassa marea e i blocchi di ghiaccio che prima galleggiavano sull’acqua si arenano sulla terraferma mostrando anche quel 90% che rimane sotto il livello del mare. Verso le undici il sole si nasconde dietro le montagne. Le poche nuvole assumono una leggera colorazione rosa, la luce del sole si sposta sempre lungo la direttiva Ovest-Nord-Est. A mezzanotte i colori sono tutti tenui, le rocce scure, il cielo rimane chiaro, il mare azzurro-grigio. Al risveglio, la mattina seguente, il sole è già alto. Le montagne ancora parzialmente innevate si riflettono nitidamente in mare. Dopo colazione cammino verso Est, in direzione opposta a quella del villaggio. Supero qualche piccolo insediamento industriale, terminano i sentieri tracciati. Il terreno è molto morbido e si alterna a rocce scure. Licheni e cuscinetti di muschio con fiori gialli, azzurri o violetti. Attraverso qualche nevaio e guado rivoli d’acqua che si riversano in mare. Ikasgrtik è il braccio di mare che unisce Tuno all’oceano e che divide Kulusuk dall’isola posta a Nord. L’acqua marina è ghiacciata e di fronte a me vedo alcuni iceberg di grosse dimensioni, alti anche alcune decine di metri. Monumenti di ghiaccio dalle forme più impensabili, bianchi con sfumature d’azzurro, immobili in assenza di correnti. Il cielo è sempre blu, il vento soffia in continuazione ma non provo una sensazione di freddo. Al rientro incrocio il responsabile dell’aeroporto con la collega turca. Mi raccontano che la domenica l’aeroporto è chiuso e che il personale oggi è andato a Tasiilaq per una partita di calcio. Ieri, verso sera, i voli in elicottero sono stati sospesi a causa del forte vento ma loro sono molto fiduciosi per domani. Lo sono anche io.
Kalaallit Nunaat in lingua locale. Groenland, dal danese: terra verde. Dall’inglese: Greenland, medesimo significato. Le origini del nome sono chiare. Non è chiaro invece il periodo esatto in cui si si insediarono i primi “Inuit” ma ancora oggi i nativi rappresentano circa il 90% della popolazione. La storia, e un po’ la leggenda, racconta che i vichinghi vi arrivarono nel XI secolo. Durante il “periodo caldo medievale” le navi scandinave poterono raggiungere le coste groenlandesi senza difficoltà. Si racconta che Erik il Rosso, condottiero ed esploratore normanno, fu esiliato dall’Islanda in quanto accusato di omicidio. Con la sua famiglia ed alcuni schiavi sbarcò sulla punta Sud-Occidentale dell’isola dove la comunità prosperò. La terra era fertile, pesca, agricoltura e pastorizia furono in grado di alimentare la comunità. Ma nella seconda metà del XV secolo le temperature si abbassarono rapidamente, arrivò la “piccola glaciazione” che causò una terribile malnutrizione. Le comunità furono a rischio di estinzione, anche le popolazioni islandesi caddero in difficoltà. Solo dopo il 1720 il Regno di Danimarca – Norvegia incominciò a fondare colonie ed a battezzare gli Inuit. In seguito alla separazione dalla Norvegia, la Groenlandia rimase danese. Col referendum del 2008 il paese ottenne una forte autonomia dallo stato centrale che rimane comunque responsabile della politica estera. Tutt’oggi Margherita II, sovrana del Regno di Danimarca, è considerata il capo di stato della nazione. La moneta in uso è la corona danese. La festa nazionale è il 21 giugno, giorno del solstizio d’estate.
La Groenlandia fa parte del continente Nord Americano ed è considerata l’isola più estesa del mondo (escludendo l’Australia che viene considerata “isola continentale”). Vasta circa sette volte l’Italia ha meno di 58.000 abitanti! 0,03 abitanti per km quadrato, una inezia. Il territorio è praticamente tutto ricoperto dai ghiacci che arrivano ad avere uno spessore massimo di 3.000 metri. Gli insediamenti umani sono possibili solo sulle coste, lungo i fiordi e sulle piccole isole che la circondano. Per questo motivo non esistono né strade tantomeno ferrovie. Gli unici mezzi di trasporto sono quindi gli aerei e gli elicotteri, solo lungo la costa occidentale vi è un servizio marittimo: il ferry Sarfaq Ittuk.
“Enjoy Greenland”, mi augura la giovane hostess di terra al banco del check-in a Keflavik. Lo spero, anzi sono certo che la Groenlandia riuscirà a stupirmi. Sono anche abbastanza fiducioso per il meteo sapendo però che non sempre sarà bello, del resto qualche tormenta non sarà inaspettata a quelle latitudini. Reykjavik mi ha accolto col cielo coperto da uno strato di nubi, un giorno e due notti grigie, stessa luce di giorno e di notte. L’aereo si alza in volo, sembra che le eliche e i turbo se le vogliano ingoiare. Dopo circa un’ora di volo in direzione Nord Ovest il mare diventa blu. Appaiono delle macchioline bianche, piccole e grosse, le ultime briciole di iceberg che vanno a sciogliersi nell’oceano. I blocchi di ghiaccio si fanno sempre più grossi ma da questa altitudine non riesco a valutarne le dimensioni reali. Una distesa immensa di ghiaccio interrompe il blu marino. Di fronte a me vedo un muro di ghiaccio che disegna una vasta insenatura di acqua più chiara, ghiacciata. Ora il bianco prevale decisamente sul blu. Il mare assomiglia a un quadro di puntinismo con intensità variabile. I blocchi di ghiaccio si fanno sempre più grandi, qualche pezzo potrebbe già essere chiamato un piccolo iceberg. Appare più distintamente l’isola, la costa si fa più nitida, montagne innevate, roccia e mare blu. Il bimotore esegue un paio di virate e si appoggia dolcemente su una striscia di terra battuta. Toccato! Ci sono, Groenlandia finalmente. Kulusuk, 65° 34’ Lat Nord. Lo sbarco è molto emozionante, e non solo per me. I pochi passeggeri sono tutti stupiti e sorridenti. I due nativi addetti alla pista ci danno il loro “welcome”. Nella piccola sala degli arrivi e delle partenze mi sento chiamare, Oscar. Sono venuti a prendermi, del resto qui non ci sono mezzi di trasporto. L’albergo è a un passo dall’aeroporto, uno stabile bianco e blu. Camera vista mare e montagne, ghiacci e iceberg. La cena sarà pronta per le 18, e per il pranzo? No, non c’è pranzo! Mi aprono la porta della cucina, lì c’è il pane, in frigorifero trovi salumi e formaggio. Serviti, fai quello che vuoi. Un piccolo sandwich al prosciutto e mezzo con aringa affumicata. Enjoy Greenland!
Lasciare Reykjavik in auto è impresa molto difficile, non trovo indicazioni, mi faccio condurre dal mio senso d’orientamento ma a volte non basta. Una volta uscito dalla città però tutto cambia. Costeggio il mare fino ad imboccare il tunnel che attraversa lo Hvalfjordur, 6 km sotto l’acqua del fiordo in tutta sicurezza. Sosta per il pranzo ad Akranes, una zuppa di pesce “organica” molto speziata, accompagnata solo da acqua. Se si guida non si beve! Superata Borgarners imbocco la strada che porta verso Nord. Sosta in prossimità di un vulcano spento. Attraverso vallate verdi, qualche fattoria isolata, pecore che pascolano e qualche cavallo. Svolto a sinistra in direzione della penisola. La strada si fa sterrata, terra e sassi per tutti i 70 km da percorrere. Costeggio il mare, grigio, come grigio è il cielo. Cade un leggera pioggerellina. Supero un fiordo con una cascata sul fondo per arrivare a Stykkisholmur dove pernotto. Un piccolo borgo affacciato ad un porticciolo racchiuso da una grande roccia di basalto. Poche abitazioni bianche, verdi o rosse, ed una chiesetta in legno di colore grigio. Mi sistemo in un albergo. Lo stabile, in legno rosso è in stile tradizionale. Anche l’interno lo è, caldo, accogliente, tutto pulitissimo, molto cordiale l’accoglienza. Mi viene assegnata una camera singola, di piccole dimensioni, mansardata, con una piccola finestra che si affaccia al mare. Per la cena mi devo rivolgere all’unico locale del paese dove trovo un ambiente umano molto gradevole grazie agli scambi con turisti italiani e stranieri. La mattina, pima di partire, vado a visitare la Norska hùsid, una casa famigliare eretta nel 1832 da un ricco commerciante. La struttura ospita il Museo Regionale che accoglie una interessante raccolta di antiquariato locale. Al piano superiore si può visitare la residenza signorile arredata con mobili e attrezzature originali. Riprendo la strada in direzione Ovest, sempre lungo la penisola. Cielo grigio e pioggerellina. Si incontrano pecore bianche e nere, piccole stalle bianche col tetto rosso. Il cielo si fa sempre più carico di nubi scure. Incrocio una grande cascata di acqua spumeggiante che grazie a diversi salti scende la verde collina. Da quella posizione si può vedere distintamente la sagoma piramidale del vulcano avvolta dal grigiore del cielo. Isolata, sferzata dal vento, appare una chiesetta in legno, bianca col tetto rosso. Sul fianco un piccolo cimitero con croci bianche e pietre nere. Un tratto di asfalto ed ecco una strana segnalazione: “guidare con attenzione, uccelli sulla strada”. In effetti per qualche centinaia di metri decine di uccelli volano in ogni direzione rappresentando un forte pericolo per se stessi ma anche per gli automobilisti. Il pericolo viene segnalato con scritte sull’asfalto, cartelli gialli e luci rosse lampeggianti. A quanto pare ogni anno decine di uccelli vengono investiti dalle auto. Il motivo è molto semplice: questi uccelli si nutrono di pesci e quindi volano radenti sui fiumi. Il punto è che questi stormi confondono la strada con un ruscello e così capita che vengono travolti. Superato Hellissandur mi porto verso il capo della penisola fino a Ondeverdames. Rocce nere alternate a spiaggette scure sferzate dal vento e dalla pioggia gelida. Rientro a Olafsvikun piccolo borgo distribuito lungo il litorale. Per il pernottamento c’è un ostello ben organizzato, pulito e ben frequentato. Per cena sono al Hraun, fronte porto, l’unico ristorante del villaggio. Una bella struttura in legno con un buon servizio e un ottimo menù. Scelgo un piatto a base di salmone gratinato accompagnato da patate, insalata, broccoli, fragole e diverse salse. Davvero di ottimo gusto. E per concludere, dopo il vento e la pioggia, verso le 11 di sera appare il cielo azzurro e un bellissimo arcobaleno. Speriamo che possa essere un buon augurio per la giornata di domani. La mattina riparto con l’intenzione di attraversare la Penisola che include il famoso vulcano Snaefellsjokull, il ghiacciaio, campi e tunnel di lava. Il vulcano è di per se una meraviglia naturalistica ma è anche stato reso famoso da Giulio Verne nel suo libro “Viaggio al centro della terra”. L’autore immagina che i ricercatori, partiti da Reykjavik, si infileranno proprio in questo vulcano con l’intento di raggiungere il centro della terra. Dopo tante vicissitudini i ricercatori potranno rivedere la luce tornando alla superfice a Stromboli. Straordinaria la fantasia di Verne. Appena si esce dal villaggio la strada offre un tracciato acciottolato che si inerpica attraversando prati brulli e lungo torrenti che formano cascate di acqua gelida. Il cielo è sempre completamente coperto, pioggia leggera e di tanto in tanto appare qualche arcobaleno. Incontro una coppia di italiani bloccati a causa dei freni non funzionanti, cerco di dar loro una mano ma l’unica possibilità è rientrare al villaggio. Io proseguo e incontro le prime chiazze di neve, il colore del fondo della strada cambia da rossiccia a nera, ai lati rocce di lava raffreddata in modo rapido e casuale. Raggiungo il passo ma il cielo è completamente coperto da nubi, il panorama praticamente azzerato. Faccio una sosta, mi guardo in giro ma è praticamente impossibile imboccare un sentiero. E così decido di scendere verso la costa fino ad Arnarstapi, un piccolo villaggio dove in un bar bevo un buon caffè che mi riscalda. Un grande e tozzo monumento in pietre scure rappresenta un omaggio a Jules Vernes, Passeggio lungo la costa. Rocce scure che delimitano il mare con la superfice superiore ricoperta da erba verdissima. Sulle rocce, di fronte al mare, centinaia di gabbiani volano e si riposano. Il vento trasporta acqua ghiacciata che sbatte sulla pelle del mio viso. E qui decido che forse è arrivato il momento di prendere la decisione di rientrare. Proseguo fino al porto protetto da imponenti muraglioni di pietre. L’entroterra è coperto da prati, piccoli stagni o laghetti, case in legno di colore bianco, rosso o nero. Riprendo l’auto e percorro una buona strada litoranea, a sinistra versanti collinosi e piccole cascate, sulla destra una chiesa protestante di colore nero ma con porte e finestre bianchissime. Pernotto a Borgarnes per rientrare nella capitale il giorno successivo. Il tempo rimane grigio e piovoso ma, alle 23 dell’ultima notte, il sole si riaffaccia per un’oretta illuminando le vie della città. Sarà un arrivederci ?
Lascio Reykjavik in direzione Sud-Est verso il famoso Golden Circle. La strada attraversa aree verdi dove, non raramente, si incontrano i famosi impianti geotermici riconoscibili grazie alle loro enormi emissioni di vapore. Prima sosta al Lava Tunnel, una galleria naturale formatasi 5.000 anni fa durante un’eruzione. Si cammina tra le pietre illuminate da grossi squarci della roccia fino ad infilarsi in un tunnel buio creato dal flusso della lava incandescente. Un fenomeno naturale frequente in questa terra vulcanica. Dalla galleria al lago. Eccoci alla Secret Lagoon, la più antica piscina naturale dell’Islanda ma, proprio per questo motivo, non molto segreta, anzi, piuttosto frequentata. Siamo in un’area geotermica dove l’acqua calda sgorga spontaneamente dal terreno. Attorno alla piscina principale si vedono ovunque pozze ribollenti e piccoli getti geiser. Bambini, adulti e anziani sono immersi nell’acqua calda fino alle spalle, molto più calda della temperatura esterna, senza considerare il vento freddo che soffia in continuazione. Qualcuno sorseggia un calice di vino bianco o un bicchiere di birra. Confesso che è una situazione piacevole, io ho optato per il vino, ovviamente. Di nuovo un vulcano, ora siamo sui bordi del Kerid Crater. 6.500 anni fa, cessata l’attività vulcanica, nel fondo della caldera si è formato un lago di acqua piovana che assume colorazioni marine grazie ai materiali che costituiscono le rocce. Proseguiamo seguendo il Golden Circle ed arriviamo al Thingvellir National Park, un ecosistema protetto dall’Unesco formato da verdi vallate, fiumi, laghetti e cascate. Qui la Natura offre molte opportunità ma sono state scritte anche importanti pagine di storia: in prossimità della Roccia della Legge i vichinghi fondarono nel 930 il primo parlamento democratico del mondo, l’Albingi. Ma la cosa che più mi emoziona è la spaccatura di Almannagja dove le due placche tettoniche, l’euroasiatica e la nordamericana, si affiancano distanziandosi. Un largo sentiero corre tra le rocce lungo la spaccatura tettonica che si allarga da uno a due centimetri l’anno. Un fenomeno eccezionale che spaccherà l’isola in due parti. Il suo lato occidentale proseguirà il suo lento cammino verso il continente americano. Davvero affascinante. Entro nell’area geotermica di Haukadalur, una valle termale con sorgenti calde, pozze ribollenti che possono anche raggiungere i cento gradi, vapori che s’alzano verso il cielo, gayser piccoli e grandi. Di fronte al centro Visitatori una folla di turisti gode lo spettacolo dell’attività dei gayser Strokkur che ogni 3 / 5 minuti si esibisce con un getto alto almeno 30 metri. E ad ogni occasione si ripete l’urlo della folla. Lungo il corso del fiume Hvità incrocio la cascata di Gullfoss che con un doppio salto precipita in un suggestivo canyon. Impressionante la potenza di quest’acqua che sembra latte e che genera un’enorme quantità di spray trasportato dal vento. Il cielo è sempre grigio, pioviggina, la temperatura è sempre fresca, rientro verso la capitale.
Pomodori freschi in Islanda??? No, non ci posso credere, saranno sicuramente d’importazione. E invece sulla fredda isola nord-atlantica si producono tonnellate di pomodori all’interno di grandi serre. Noi andiamo a visitare Fridheimar, 40 km ad est della capitale, una serra produttiva ed un ristorante nello stesso sito. Filari di pomodorini si susseguono all’interno di estese serre riscaldate dall’energia geotermica e dal calore solare, quando disponile. Le radici non sono innestate nel terreno bensì in piccole scatole riempite di terra. Ogni scatoletta ha un tubicino attraverso il quale il sistema d’irrigazione fornisce acqua e tutte le sostanze necessarie alla crescita delle piante. Il risultato sembra essere molto buono: le piante, alte più di due metri, sono cariche di pomodorini rossi ben maturi o ancora verdi in fase di maturazione. Sembra tutto incredibile ed anche un po’ innaturale ma l’ambiente è affollato di api che circolano ovunque posandosi anche sulle mie mani. In assenza di una naturale circolazione di aria e vento sono proprio le api le artifici della impollinazione. Nella serra non solo pomodori ma anche girasoli e molte piantine di basilico. Anche a queste latitudini il connubio pomodoro e basilico è noto e apprezzato. Chissà, forse qualcuno ha visitato l’Italia apprezzando l’accoppiamento. Al termine della visita delle coltivazioni non ci resta che assaggiarne i prodotti. Ci si accomoda ai tavoli circondati dalle piante di pomodoro, un vasetto di basilico sul tavolo manco fossimo a Prà, immersi in un clima caldo-umido mentre all’esterno soffia il solito vento freddo. La zuppa di pomodoro è d’obbligo, buona, anzi buonissima, tant’è che ne faccio il bis. E non rinuncio ad una porzione di ravioloni alla borragine conditi col pesto homemade, una porzione così abbondante che la condivido con gli altri commensali. Lasciando la greenhouse si rientra nel freddo clima islandese, sempre ventoso e, anche oggi, cielo coperto e pioggia leggera.
Meta ideale per una breve escursione in giornata, l’isola di Videy si trova di fronte al porto commerciale di Reykjavik. Bastano pochi minuti di battello per entrare a pieno titolo nella natura, la città è alle nostre spalle ma sembra d’essere a miglia di distanza dalla “civiltà”. Superato l’antico stabile in pietra a tetto spiovente, ora adibito a bar-ristorante, sulla destra si imbocca il sentiero che attraversa il vecchio abitato. Le fondamenta delle vecchie case sono ancora riconoscibili mentre i muri sono quasi totalmente distrutti. L’isola è stata abitata dal 900 dc fino al 1950 da diverse famiglie e uomini di stato. La scuola è invece tutt’ora ben conservata con arredi e pannelli didattici alle pareti. Sul lato opposto dell’isola invece si incontra la Imagine Peace Tower voluta da Yoko Ono, un monumento dedicato a John Lennon. Un pozzo rotondo che guarda il mare con messaggi di pace scritti in 24 lingue del mondo, italiano compreso: “Immagina La Pace”, concetto così necessario oggigiorno ! Inoltre, ogni sera del 9 ottobre (data del compleanno di John) e del 8 dicembre (anniversario della sua morte) viene proiettata una altissima colonna di luce nel cielo notturno. L’isola è ricoperta da erba, rovi e piante basse. Il vento fresco fa ondeggiare la vegetazione e crea un forte fruscio che si alterna al ronzio delle api e dei garriti dei gabbiani. Tutta l’isola è attraversata da una rete di sentieri, alcuni anche percorribili in bicicletta, un’oasi naturale pacifica e tranquilla. E mentre rientro in città esce uno scampolo si sole, arrivano le famiglie per una breve visita.
Reykjavik, affacciata sul golfo di Faxafloi e bagnata dalle acque dell’Oceano Atlantico, è considerata la capitale più a Nord del mondo. Qui siamo al 64° Lat Nord, poco sotto il Circolo Polare Artico. 120.000 abitanti che diventano circa 200.000 se includiamo anche i sobborghi. Due terzi della popolazione nazionale vive in quest’area. Tutto ciò dà l’idea di cosa è questo paese: lande verdi, montagne, vulcani, piccoli centri abitati, abitazioni isolate.
Il cuore pulsante della città è la “Vecchia Reykjavik”, tante stradine che s’incrociano dove si allineano case tradizionali di legno tinteggiate coi più diversi colori. Al centro un tranquillo laghetto dove vivono cigni e gabbiani. Poco più in là si trova l’Althing, il palazzo in basalto del Parlamento islandese, una sessantina di deputati in tutto. Qui di fronte si sono tenute le manifestazioni popolari che alcuni anni orsono hanno portato alle dimissioni dei ministri corrotti. La popolazione ha invaso questa tranquilla piazza agitando pentole ripiene di monete. I ministri accusati hanno dovuto riparare all’estero e, in seguito alle loro condanne, si è verificato il fallimento economico del paese nell’autunno del 2008. Scendendo verso il mare arriviamo al Vecchio Porto. Tempo fa era un porto di servizio, ora è stato trasformato in una attrazione turistica con i moli di partenza per le escursioni in barca alla ricerca di balene e delle “pulcinelle di mare”, piccoli uccelli bianchi e neri con un becco alquanto strano. Le vecchie baracche in legno sono invece state trasformate in piccole gallerie d’arte, musei, cinema e tanti piccoli ristoranti che offrono prevalentemente prodotti di mare. Io segnalo una stupenda zuppa di langustine. Proseguendo lungo la costa si incontra la sala da concerti Harpa. Oltre alla qualità dei concerti che vi si tengono, Harpa è una notevole opera d’architettura moderna. L’esterno è composto da centinaia di pannelli di vetro sfaccettati e luccicanti che cambiano colore in funzione dell’impatto con la luce solare. Rientrando verso il centro si imbocca la pedonale Bankastraeti che più avanti cambia il nome in Laugavegur, entrambe ospitano negozi, bar e ristoranti. Alcune palazzine sono tinteggiate con murales di buona fattura. Passeggiando lungo la Bankastraeti, in corrispondenza di un vecchio locale, si incrocia una diagonale che porta verso l’alto della collina dove sorge la Hallgrimskirkja. Il primo tratto di strada pedonale è interamente verniciato coi colori dell’arcobaleno a sostegno del movimento LGBTQ+. L’Islanda, da questo punto di vista, è uno dei paesi al mondo più aperto a questo argomento. La strada che sale è la Skolavordustigur, anch’essa piena di locali con tavolini all’aperto dove si sorseggiano boccali di birra ma anche calici di vino. Non mancano i ristoranti dove si consumano piatti locali a partire dal fish and chips che normalmente è un merluzzo, o cod, fritto. Sono riuscito a godermelo anche io un giorno a pranzo approfittando di una oretta di sole. Sulla piazza della chiesa si staglia la statua del vichingo Leifur Eiriksson, il primo europeo che raggiunse l’America navigando lungo il mare del Nord. Hallgrimskirkja è una grande chiesa luterana costruita con un freddo cemento bianco durante l’ultimo dopoguerra. La facciata è costituita da blocchi di cemento, le fiancate ricordano le colonne di basalto fuoriuscite dai vulcani, la struttura si spinge verso l’alto e termina con una torre alta 75 metri. Per questo motivo, ed essendo stata costruita sull’unica collina della zona, la chiesa è visibile anche a 20 km di distanza. La prima volta vi entro stanco della passeggiata e completamente inzuppato da una pioggia fine e gelida che mi accompagna poco gentilmente durante questo mio viaggio. Il primo istinto è quello di sedersi e le panche, che sono rivolte verso il retro, consentono di ammirare l’enorme organo costruito nel 1922 con ben 5.275 canne. Rivolgendosi invece verso l’altare si nota una struttura moderna, sobria, fredda, che si spinge verso l’alto ma che non emoziona. La città è ricca di musei e ne vorrei citare solo due. Il primo è sicuramente il Museo d’Arte – Hafnarhus distribuito in tre siti diversi della città e piuttosto distanti tra di loro. Il più interessante è certamente il primo che si trova in centro città. Allestito in un vecchio magazzino ristrutturato e convertito in spazio espositivo. Si trovano installazioni, video, dipinti ma prevale l’esposizione infinita di quadri in stile fumettistico dell’islandese Errò. I quadri trattano ogni tipo di soggetto, dalla guerra alla politica, la natura, storie di uomini e donne realizzati su enormi tele. Francamente mi ricordano i fumetti di Jacovitti che leggevo settimanalmente da ragazzo. Nel cortile dell’ex magazzino ho invece trovato interessante il riutilizzo di due containers rossi trasformati in sale di proiezione. Il secondo museo è invece una delle cose più strane che io abbia visto nel mondo: il Museo Fallologico Islandese. Ebbene si, un museo del “cazzo” come qualche ragazzo italiano ha scritto sul diario. Battute a parte il museo espone una collezione infinita di peni umani e animali, ben 182 complessivamente. Si passa dal pene microscopico di un topolino a quelli dei balenotteri, passando anche attraverso quelli umani. E c’è persino il calco del pene di Jimi Hendrix.
Reykjavik è comunque una città molto viva. E’ piena di bar, pub, ristoranti. Parlando di cucina, ovunque si trova una zuppa che può essere di pomodoro, di pesce o di carne, agnello o manzo. Io ho decisamente preferito quella tradizionale d’agnello con patate e verdure. L’agnello la fa da padrone, arrosti e cosciotti, tutti mediamente buoni. Il pesce è disponibile in tutti i locali: merluzzo, salmone e aringhe. Birra e vino di importazione vengono bevuti in modo quasi paritario. Ho trovato nei menù anche interessanti vini italiani di qualità, Prosecco e Aperol Spritz ovunque. La città offre molte opportunità per godere musica pop/rock live. L’Hard Rock Cafè non ha un palco quindi niente musica live, per di più chiude alle ore 21. Secondo la mia esperienza il locale migliore è il Mal Og Menn9ng. Un ottimo gruppo composto dai quattro elementi che esegue magicamente covers internazionali coinvolgendo il pubblico che è seduto circondato da scaffali di libri. Sui tavoli a disposizione scacchi, mazzi di carte e giochi di società. Un luogo dove giovani e anziani possono passare una serata intera. Reykjavik insomma è una città aperta, libera, culturale e divertente.
Dopo una notte di tranquilla navigazione, il ferry imbocca il fiordo Reydarffjordur, le nuvole si aprono e appare il sole, il cielo è finalmente azzurro, il vento piuttosto freddo. Percorriamo un fiordo profondo 17 km, ai lati prati, rocce e cascate, montagne dalle cime innevate. Lentamente la nave attracca al molo di Seydisfjordur e mentre mi preparo allo sbarco, auto, camper e camion iniziano a raggiungere la terraferma. Sul lato opposto centinaia di mezzi si preparano per l’imbarco ma, una volta terminate le operazioni di carico e scarico, il paese assume la sua caratteristica di località dolce e tranquilla, ospitale, che ha saputo accogliere artisti ed intellettuali. Il centro abitato è composto da case in legno di tutti i colori mentre la chiesa è di colore azzurro tenue. Di fronte alla chiesa la vera attrazione della località: Nordurgata, o meglio, la Via dell’Arcobaleno: un centinaio di metri di selciato dipinto con i colori dell’iride. E proprio durante la mia visita ragazzi e ragazze ridipingono le strisce colorate. Secchi pieni di colori, rulli coi lunghi manici, movimenti precisi, ridanno vita a questo simbolo di libertà, solidarietà e fraternità. E una ragazza si rivolge a me aggiungendo: ora è anche un forte simbolo di pace. La Rainbow Street incrocia un trivio dove si trovano due opzioni per il pranzo. El Grillo Bar che offre piatti alla griglia , una ventina di birre islandesi nonché una speciale El Grillo, preparata secondo un’antica ricetta che deve il nome alla petroliera britannica affondata nel fiordo molti anni fa. Di fronte invece si trova il Nordic Restaurant situato nell’edificio dell’Hotel Aldan. Nella sala, prevalentemente in legno chiaro, si apprezza la pace e la tranquillità. Vengono offerti pesci locali o un piatto di filetti d’agnello al forno accompagnati da purè e verdure locali. Un piatto davvero squisito e la carne molto tenera. Un mini-bus fa servizio verso l’aeroporto di Egilsstadir, nell’entroterra. La strada sale verso colline e montagne verdi attraversate da cascate fino a raggiungere un lago artificiale. Le montagne che circondano la zona hanno grosse chiazze di neve. Si prosegue lungo l’altopiano dai contorni molto morbidi fino quando appare un laghetto stretto e lungo. Un breve discesa ci porta dove, su un tratto piano, sorge l’aeroporto. Tutte le operazioni sono molto semplici, nessun controllo sicurezza e il piccolo turbo-elica con destinazione Reykjavik lo si raggiunge a piedi. 50 minuti di volo e si atterra all’aeroporto cittadino della capitale.