Arrivederci Cina. Lascio la Cina con un po’ di nostalgia ma la mia avventura continua. Domani attraverserò le montagne del Pamir per raggiungere il Kirghizistan. Durante questo viaggio sono riuscito a conoscere la Cina più vera, più profonda. Ho trovato un popolo aperto e sorridente. Un po’ maleducato nel rispettare le code, dare spintoni, interporsi tra la mia camera ed il soggetto ma nel complesso è stata un’esperienza positiva anche se non facile in alcuni passaggi. Noto troppo spreco sia di energia che nel settore alimentare. Sono costretto a sottolineare che la conoscenza dell’inglese è troppo scarsa perfino nel settore del turismo e tra i giovani studenti. Penso che ciò rappresenti un grosso freno allo sviluppo del paese anche se noto la volontà di crescita. Opere di ingegneria modernissima, linee ferroviarie ad alta velocità, strade e autostrade, ponti avveniristici costellano il paese. Del resto a breve saranno, o forse già lo sono, la prima economia del globo. E’ un paese che ha avuto una grande storia e che ha espresso tanta cultura però in questo mio viaggio non ho mai visto una persona a leggere un libro o un giornale, non una persona con un tablet o un computer come succede normalmente sui nostri treni. Tutto passa attraverso il cellulare: traduzioni scritte o verbali, mappe e pagamenti. Tutto tecnologico e tutto tracciato. Ma il problema è che la cultura odierna passa solo attraverso Tik Tok. Tutti, ma davvero tutti, sempre col cellulare in mano a vedere ogni tipo di video. Al contrario, a noi stranieri è vietato ogni tipo di social e, andando verso occidente, vengono filtrati perfino i nostri giornali. L’unico mezzo di comunicazione che mi è stato concesso sono le e-mail. Impossibile anche aggiornare il mio blog in quanto basato su wordpress. La comunicazione è una delle basi della democrazia e una riflessione sull’argomento è assolutamente opportuna.
KASHGAR
Questa volta devo proprio ringraziare Beppe e Filippo Tenti di Overland. Sono stati loro che grazie ad un bellissimo documentario mi hanno segnalato questa destinazione. In seguito a ciò ho leggermente variato il mio itinerario: attraversare il Pamir anziché passare più a Nord attraverso il Kazakistan. Kashgar, che qui chiamano Kashi, per due millenni è stata l’epicentro di scambi culturali e commerciali nonché tappa obbligata lungo la Via della Seta. Ancora oggi il mercato della domenica è un importante evento, sempre visitatissimo. Purtroppo io arrivo di lunedì. Posta a circa 1.300 metri slm ha un clima caldo ma non umido e soffocante, la sera poi si rinfresca. Tutto gravita attorno alla Old Town che è il cuore della città. All’interno si trovano ancora moltissimi esempi di architettura locale, le case hanno dai 50 ai 500 anni di storia, strade strette e vicoli, tutto pedonalizzato. Le case tradizionali raramente superano i due piani ed erano costruite con legno e terra, il colore tradizionale era il giallo ocra. Verso l’esterno hanno balconi in legno e all’interno dei cortili le balconate sono dipinte. Purtroppo il governo nel corso degli ultimi venti anni ha investito grossi capitali per abbattere le vecchie case e costruire palazzi moderni. Una barbarie. Comunque l’area resta tutt’ora visitabile ed è molto ampia. Musica araba, abiti occidentali ma anche in stile russo-arabo, luci e odore di carne alla griglia. Un feeling da mille e una notte, soprattutto la sera. Impossibile descrivere tutto ciò che avviene all’interno della Old Town che ha ancora delle massicce mura e porte ad arco che resistono da oltre 500 anni. Si incontrano negozietti che vendono ogni tipo di mercanzia, piccoli laboratori con artigiani al lavoro secondo le tradizioni del popolo Uygur che si è insediato a Kashi da parecchi secoli. La tradizione della lavorazione del ferro è ben raccontata all’interno di un piccolo museo. E poi sarti, incisori, panificatori e macellai con i loro pezzi di carne appesi sul fronte della strada. La macellazione qui ha una forte tradizione, moltissimi sono i ristoranti o i piccoli chioschi che offrono spiedini. Ce ne sono di tutti i tipi: carne di manzo, di agnello, di pollo ed anche di uccelli. In alcuni angoli il fumo e l’odore riempiono l’atmosfera ed io lo trovo affascinante. Tutti i ristoranti hanno stufe all’aperto dove bollono diversi tipi di brodo all’interno di pentolini smaltati di colore bianco con tante raffigurazioni, fiori ma anche Mao. Cinesi mangiatori di riso e pasta ma qui anche di pane. L’impasto viene tirato a vista e quando è pronto viene infilato nei forni a bordo strada. I forni sono come quelli che ho visto in Georgia dove si produce il pane più buono del mondo (secondo la mia esperienza). I forni sono cilindrici, aperti in alto e profondi circa un metro, nel centro fuoco e carbonella. L’impasto viene appeso alle pareti per la cottura che è abbastanza breve. In Georgia la forma del pane è ovale, qui invece è rotonda e di diverse grandezze. Alcuni poi offrono una specie di panzerotto ripieno di carne d’agnello speziata, non molto grande, circa 7/8 cm. Questi vengono cotti nella parte superiore del forno che è un po’ incurvata verso l’interno sfidando così anche la legge di gravità. Una volta cotti vengono poi estratti con fatica staccandoli dalla parete del forno. Si trovano anche venditori di caffè. Uno di questi ha una macchina espresso italiana, un secondo espone una caffettiera Bialetti. C’è anche molta frutta: angurie e meloni, arance e molto melograno da cui si estrae anche il succo. All’interno di una casa tradizionale si tiene uno spettacolo in costume dove si esibiscono un ragazzo col tipico costume da ballo russo di colore giallo e tante ballerine con abiti lunghi e ampie gonne. Ballano roteando ma anche sceneggiando storielle divertenti. Una ragazza balla girando su se stessa, indossa una ampia gonna e regge delle tazze sulla testa. Tutto avviene mentre agli spettatori viene servito the, fette d’anguria, un dolcetto, uva secca e noci. Al termine del breve spettacolo giù tutti in pista a ballare. Vengo spinto anch’io e si balla tutti attorno, ballerine e spettatori. Io sono sempre restio a farmi coinvolgere ma devo ammettere che alla fine è stato molto divertente.








IN TRENO DA XI’AN A KASHGAR
Xi’an Railway Station: una grande stazione illuminata come un tempio durante i giorni di festa, una vastissima sala d’aspetto al primo piano, tornelli per accedere ai binari. Io passo scandendo il solo passaporto, niente biglietto, qui tutto è tracciato. Convoglio T269, destinazione Kashgar. La classificazione T identifica treni tradizionali dalla velocità massima di 150 km/ora destinati alle lunghe percorrenze, hanno cuccette e un vagone ristorante. Lo scompartimento ha quattro cuccette dotate di materassi, cuscini e lenzuola, non manca l’aria condizionata. Il treno parte puntualissimo. Vado alla carrozza ristorante ma, incredibile, non servono del the, in Cina ! Opto per una birra. I passeggeri del mio tavolo litigano per una giacca appoggiata sullo schienale, quattro passeggeri giocano a carte, il direttore del ristorante urla il menù. La notte passa tranquilla, mi sveglio prima dell’alba, il cielo è ancora grigio. Attraverso zone di basse montagne e centri industriali. Ritorno alla carrozza ristorante per la colazione, i passeggeri sono seduti agli stessi tavoli, stessi visi, stessi posti. Per colazione, in un box di plastica, mi vengono servite verdure stufate, un uovo sodo ed un panino bianchissimo. In aggiunta un brodino insapore con del riso scuro. Il treno viaggia regolare e silenzioso. Dopo aver attraversato una piana verde e coltivata si entra lentamente nella zona desertica. Vedo solo le linee ferroviarie, un’autostrada piena di camion, tralicci dell’alta tensione. Per pranzo, su un vassoio di plastica, trovo verdure e patate in umido, strani funghi nerissimi, ed un insulso brodino con verdure. Nel primo pomeriggio sosta a Jiayuguannan, una grossa città e centro industriale. Ripartiamo e nel nulla del deserto spuntano centinaia di pale eoliche che girano lentamente. Il deserto cambia aspetto, appaiono colline di colore grigio scuro. Questa è certamente una zona mineraria perché vedo lunghissimi treni con i carri scoperti. La carrozza ristorante è sempre molto affollata, sempre le stesse persone, i quattro che giocano a carte, sembra una situazione congelata. Solo ora ne capisco il motivo: questi passeggeri hanno un biglietto ma senza un posto a sedere, tantomeno la cuccetta. Appoggiano la testa sul tavolo e dormono così. Superato un altro enorme parco eolico sul terreno incominciano ad apparire rovi e qualche piccola pianta fino ad arrivare in una vasta piana tutta coltivata, chilometri e chilometri di coltura estensiva. Siamo arrivati ad Hami, una città di mezzo milione di abitanti famosa per il suo melone dolce. Il treno sosta per circa un’ora e consente ai passeggeri di scendere e comprare i fatidici meloni. Il treno riparte invaso da meloni, meloni sui tavoli, meloni per terra, meloni ovunque. Stasera per cena le ferrovie cinesi propongono noodles con qualche pezzetto di carne e tanto sedano. Rientro nello scompartimento e trovo un ragazzo che parla un po’ d’inglese, molto scolastico ma ci capiamo. E’ interessato a me in quanto straniero, al mio viaggio e all’Italia. Ha visto delle fotografie e pensa che sia bella, eccome no. Ora però ho capito la presenza sul treno di tanti giovani accompagnati dal padre o da entrambi i genitori. Sono tutti ragazzi e ragazze che stanno andando all’università di Kashgar. Questo ragazzo ed il mio compagno di scompartimento studieranno ingegneria elettrica/informatica, hanno 19 anni. Non hanno scelto di andare a studiare così lontano ma è il sistema che assegna dei punti, più alti sono i punti migliore sarà la sede di studio. Sembrerebbe favorire il merito ma chissà. Passa anche la seconda notte. Al mattino il cielo è sempre grigio. L’orologio della carrozza ristorante indica le 9 ma questa è l’ora di Pechino. Qui siamo all’estremo Occidente del territorio cinese quindi dovrebbero esserci circa due ore di fuso. Praticamente il cielo è quello delle 7. Ho un forte desiderio di the o caffè ma la risposta è sempre negativa. Pur di bere qualcosa di caldo accetto la brodaglia insapore con il riso scuro e nella solita scatola trovo le verdure di ieri sera con i funghi neri, l’uovo sodo e il panino bianchissimo. Stamattina però il ristorante non è più affollato, e neanche i corridoi dove bivaccavano parecchie persone. Molti passeggeri sono scesi durante la notte. Il ristorante è semivuoto e i pochi sopravvissuti sono stanchi, dormono tutti con la testa appoggiata al tavolo. Sulla destra appaiono montagne rocciose dello stesso colore della terra del deserto, vedo qualche rovo e una piccola mandria di cammelli. Penso ai tre Polo e ai tantissimi carovanieri che sono passati di qua, il loro viaggio non sarà stato facile, tantomeno comodo. A questo punto mi rendo conto con certezza che sono l’unico passeggero occidentale di questo treno. Di nuovo una vasta area coltivata e poi appaiono i primi palazzi. 12,58, siamo arrivati puntualissimi a Kashgar dopo circa 39 ore di viaggio. Sul piazzale antistante la stazione alcuni ragazzi agitano cartelli rossi con scritte gialle in cinese. Hanno il compito di raggruppare gli studenti suddivisi per facoltà, per loro sono pronti diversi pullman. La stazione ferroviaria dista alcuni chilometri dal centro. Cerco di prendere un taxi ma il problema è sempre quello: la destinazione. Ho il nome dell’albergo e l’indirizzo in cinese ma il taxista non sa dove andare. Comunque parte e dopo una decina di minuti vede una vigilessa e si ferma. Anche lei cerca di capire qualcosa, suggerisco: questo è il numero di telefono, chiamate. Si parlano in cinese fino a quando vedo l’autista sorridere. OK, ce l’abbiamo fatta. Mi porta davanti ad un lussuosissimo hotel e lo ringrazio. Mi reco immediatamente alla reception ma mi dicono che non è quello l’albergo che ho prenotato. Un attimo di sconforto ma un gentile addetto trova l’indirizzo e mi dice che è proprio lì vicino. Me lo indica su una cartina tipo Google Maps (la mia non è in funzione) e mi descrive il percorso. Poi chiama un ragazzo addetto ai bagagli che mi accompagna a piedi fino al mio albergo. Anche questa è Cina.



L’ESERCITO DI TERRACOTTA
Sin dal lontano 1974, quando il sito fu scoperto e venne resa pubblica la notizia, diventò un mio grande sogno. Come molte altre scoperte e invenzioni anche questo sito archeologico fu trovato per caso. In un’area non lontana da Xi’an, in prossimità di un terreno molto fertile dove si coltivavano piante da frutta, alcuni contadini scavando la terra scoprirono dei reperti in terracotta. Gli archeologi in seguito fecero un lavoro di scavo straordinario non ancora terminato. Vennero così alla luce uno dopo l’altro guerrieri, arcieri, cavalli e carri in terracotta risalenti al terzo secolo a.c. L’imperatore Qin Shi Huangs, pensando di continuare il suo ruolo di comando anche dopo la sua morte, volle avere sempre a disposizione il suo esercito. La visita del sito si basa su tre settori distinti. Il primo (Pit 1), protetto da un grandissimo capannone simile ad un hangar d’aereo, offre la vista di circa duemila guerrieri ma si ritiene che complessivamente possano essere anche seimila. Guerrieri e cavalli sono tutti rivolti verso Est, tutti allineati su diverse file. Una leggenda, molto vicina alla verità, sostiene che non vi sia un volto uguale ad un altro. La vista panoramica è davvero impressionante anche se la balconata sul fronte è troppo affollata. Proseguendo il percorso ed avvicinandosi ai personaggi l’emozione sale notevolmente. Verso il fondo si possono vedere gli scavi ancora in corso e molte statue in fase di restauro, una sorta di ospedale traumatico. Il Pit 2, più contenuto del precedente, offre meno personaggi (circa 1.300) ma molto ben dettagliati. Straordinari i quattro cavalli appaiati che aprono il gruppo di guerrieri. Il Pit 3 contiene solo 72 tra guerrieri e cavalli. Si ritiene che questo sia il settore del comando dato l’alto numero di ufficiali. Prima dell’uscita, racchiuse in grandi teche di vetro, sono esposti gli originali di alcune statue straordinariamente conservate. Un arciere inginocchiato riconoscibile dalla sua pettinatura (gli arcieri avevano i capelli raggruppati su un solo lato per lasciare il giusto spazio all’enorme arco), a seguire l’imperatore con i suoi lunghi baffi, un ufficiale in divisa, un guerriero che tiene le redini di un cavallo, e per finire un arciere con baffi e pizzetto che tende il suo arco. E un altro sogno si è realizzato.






XI’AN, ALLA CORTE DELL’IMPERATORE
All’epoca di Marco Polo Xi’an era la città dell’imperatore, di poeti, di monaci, di commercianti e di guerrieri. Nel 1370 la dinastia Ming fece costruire le mura della città, le City Walls. Mura di 12 metri di spessore con un perimetro totale di 14 km. Un enorme rettangolo con quattro porte contrassegnate dai quattro punti cardinali. Un’opera immensa, simbolo del potere, una robusta difesa della città, impenetrabile, tutt’ora intatta. Per meglio dire ben restaurata perchè tra gli anni ’70 e ’80 era in totale abbandono. Nel museo che si trova all’interno delle torri sono esposte molte fotografie in b/n che illustrano quella rovina. Oggi sono completamente visitabili e perfino ciclabili. Io visito la porta est (East Gate), la porta della speranza. Superato l’arco d’entrata si accede ad un grande cortile. Giunti qui, gli eventuali nemici o invasori venivano attaccati da migliaia di frecce scagliate dagli arcieri posizionati sulle mura. Purtroppo oggi quel cortile è utilizzato per il parcheggio di auto e pullman dei visitatori. Salgo una lunga rampa di scale che porta ai cammini merlati. Le mura, con stendardi e lanterne rosse, sembra che non abbiano fine. Una di fronte all’altra svettano due torri col tetto a pagoda. La più alta era destinata ai generali mentre la seconda agli arcieri. Questa torre è visitabile ed ospita un museo. Al terzo e ultimo piano si possono ammirare i soffitti sostenuti da grosse travi in legno completamente dipinte. Esattamente nel centro di questo grande rettangolo disegnato dalle mura si trova la Bell Tower. Anch’essa una grande torre col tetto a pagoda risalente al XIV secolo e ricostruita nel ’700, originariamente ospitava una vecchia campana, da qui il nome. Poco più in là si trova la Drum Tower che ospita dei grandi tamburi sulle balconate del primo piano. Di notte, quando sono illuminate, sono uno spettacolo imperdibile. Camminando lungo il retro della torre si entra nel Muslim Quarter. Storicamente è stata un’area della città occupata dalla comunità Hui, oggi vede in prevalenza gli islamici. Donne velate e simboli religiosi si incontrano però solo all’interno dei ristoranti islamici mentre l’insieme è molto cinese. Affollatissimo di notte, un tripudio di colori, di luci, qui si vende ogni tipo di genere alimentare, di cibo di strada, di bevande (non alcooliche), dolci, gelati e frutta. Come sempre tutto ben esposto, ordinato e pulito. Mi fermo in un ristorante islamico dove mangio una zuppa di carne di montone con piccoli gnocchetti di pasta e verdure, gradevole. Nelle viuzze circolano molte ragazze vestite con abiti antichi costituiti da veli leggeri, tutte ben truccate con coroncine fiorate in testa. Una sera mi trovo in un centro commerciale e curiosando vedo un piano intero dedicato a questa nuova moda. Decine di negozi strapieni di queste vesti e angoli dove mani esperte truccano le ragazze. Lungo le strade le ragazze fanno selfie in continuazione, alcune nientemeno posano in costume con fotografi professionisti. La città è moderna e molto trafficata. Gli automobilisti sono molto indisciplinati e qualche volta anche rumorosi. Silenziosissimi sono invece i motorini elettrici, ne girano a migliaia e mi sembrano molto pericolosi perché sfrecciano a pochi centimetri dalle persone, anche sui marciapiedi. E attraversando il traffico cittadino, spesso intasato, mi porto fuori dalle mura per raggiungere la Big Goose Pagoda. Completata nel 652 è forse il miglior esempio della architettura del periodo della dinastia Tang (618–907 dc). Alta 64,5 metri è caratterizzata dai tipici sette livelli della religione buddista. La vasta area, circondata da aiole e zone verdi, ospita anche due templi con all’interno statue dorate del Budda. I fedeli davanti ai portali pregano, si inginocchiano, offrono incensi.





NO, NON E’ STATO FACILE RAGGIUNGERE XI’AN
In taxi fino alla frontiera condotto da un autista che, non parlando inglese, delle mie richieste ha capito solo China. Alla frontiera, in uscita da Macau, il controllo passaporto e facciale è rapidissimo per gli stranieri, lo è anche per i locali ma il flusso è composto da una marea di persone. Rapido, ma anche simpatico, il controllo cinese in entrata con la guardia che sorridendo mi dice “ha viaggiato molto lei”. Cento metri e trovo la stazione ferroviaria. Nessuno parla inglese, in biglietteria mostro la mia prenotazione da Zhongshan West a Xi’an e chiedo un biglietto per raggiungere quella stazione. Tutto bene ? Mah. Scendo dal treno e cerco di orientarmi. Due addetti mi chiedono il passaporto ma capisco che c’è qualcosa che non va. Nessuno parla inglese e non so neanche dove mi trovo. Capisco che dovevo andare in un’altra città e che dista almeno cento km. Nessuno si prende cura del mio problema, mi incazzo ed incomincio a farmi sentire. E così arriva un ferroviere che riesce a pronunciare qualche parola in inglese e gentilmente mi aiuta. Prende tutti i miei documenti e riesce a stampare il mio biglietto che ovviamente non va più bene. Mi accompagna in biglietteria, attende con me in coda, spiega tutto il caso alla ragazza della biglietteria. Fantastico, mi rimborsano quasi totalmente il mio biglietto e mi emettono due nuovi biglietti per Xi’an via Guangzhounan. E allora avanti, si riparte. Un’ora e arrivo alla stazione della coincidenza. Meglio mangiare qualcosa prima di partire. L’unico chiosco che accetta una carta di credito è KFC. Incredibile, non mai mangiato da KFC e mi capita di farlo proprio qui, in Cina ! E il panino non è poi neanche male, sarà la fame. Tutte queste stazioni sono modernissime perché l’alta velocità, anche in Cina, è abbastanza recente. Al piano superiore, binario 17, trovo un lungo siluro grigio chiaro, è un treno della casse G, velocità massima 350 km/ora. L’interno sembra quello di un aereo ma con maggiore spazio per le gambe, però trovo un difetto: non ha il collegamento wi-fi. Comunque parte puntuale, molto silenzioso e sempre pulito. Si attraversano risaie, piccole pianure e tante colline verdi. Qualche cittadina e molte città anonime, dei veri non luoghi. Si notano le differenze tra generazioni di abitazione: le case di 4/5 piani degli anni ‘60/70 ed i più recenti palazzi da 30 o 40 piani. Si supera Wuhan ( indenni 😊 ) con un grosso centro industriale: ciminiere fumanti, torri di raffreddamento con uscite di vapore acqueo e tanto inquinamento. Arriva l’ora del tramonto, il sole è una palla rossa, il cielo si fa rosa, una serie di pale eoliche rompono l’incantesimo. Arriva il buio e le città si illuminano anche grazie a queste grandi torri abitative. Arrivo a Xi’an che è già tardi, alcuni taxisti mi rifiutano il servizio perché non capiscono dove devo andare. Finalmente un addetto, grazie ad un cellulare, riesce a tradurre il mio indirizzo in cinese. La stazione dell’alta velocità dista diversi chilometri dal centro ma il conducente fa un ottimo lavoro. Per soli 6,5 € mi accompagna in albergo e si fa carico anche della valigia. Presa la camera, ormai è mezzanotte, non ho cenato e non ho valuta cinese. Un’ora per trovare un bancomat in servizio, fame e stanchezza prendono il sopravvento. Nell’area dell’albergo, siamo in pieno centro città, ci sono chioschi di cibo di strada, negozietti che offrono ogni tipo di alimento e tanti ristoranti con tavolini all’aperto. All’una di notte i tavolini sono quasi tutti occupati in prevalenza da giovani che si abbuffano, fumano, e lasciano quantità immense di avanzi e di immondizia. Da una ragazzina, con la quale riesco a comunicare, mi faccio servire una zuppa con verdure e strane pappardelle larghe almeno 5 cm e lunghe circa un metro. C’è poi una seconda scodella, più piccola della prima, colma di una salsa al pomodoro molto speziata. La pappardella va immersa in questa salsa, difficile da gestire, soprattutto con le bacchette, ma piacevole.

MACAU – POCO PORTOGHESE MA MOLTO CINESE
Il monumento più importante della città è senza ombra di dubbio la chiesa di San Paolo di cui resta solo la facciata con le sue statue, i portali ed i rilievi. Era una chiesa gesuita del primo seicento costruita da profughi cristiani giapponesi e da operai cinesi ma su un progetto di un gesuita italiano. Purtroppo nel 1835 un incendio scoppiato nella cucina della caserma di un battaglione militare distrusse ogni cosa. Scendendo la lunga scalinata si raggiunge il vecchio quartiere coloniale con le sue stradine contrassegnate da pannelli in ceramica bianca e azzurra. Anche la toponomastica è tutta in lingua portoghese: rua, avenida, largo. Lungo le anguste strade si incontrano tanti negozi cinesi ma anche moltissime pasticcerie che offrono le loro delizie ai passanti. Scendendo lentamente si raggiunge largo de Sao Domingos, una piazza dominata da una chiesa col frontale dipinto di giallo, abbellita da qualche palma e pavimentata in bianco e nero. Proseguendo si accede allo stretto e lungo “largo do Senado” che in questi giorni è arricchito da tante lampade rosse che sono state installate per la festa del “bolo lunar” e per il 75° anniversario della “Republica Popular da China”. Sul fondo della piazza una fontana circolare tutta circondata da fiori gialli e rossi ed il palazzo del Senato locale: “Instituto para os Assuntos Civicos Municipais”. Un palazzo del 18° secolo che include una importante libreria ed una mostra d’arte, in questi giorni sono esposti delle bellissime opere di scrittura cinese. Salendo verso il piano superiore rimango stupito dall’uso e dalla bellezza delle ceramiche bianche azzurre. Senza dubbio una impressione molto portoghese. Il primo piano ospita il Senato con i ritratti dei presidenti emeriti. Poco oltre la piazza si incomincia intravedere la torre dorata a forma di loto del Gran Lisboa, simbolo della città. Macau è sostanzialmente la Las Vegas dell’Oriente ed immancabile sarà la visita ad alcuni tra i numerosi casinò. Attivi giorno e notte, sono sempre affollati da accaniti giocatori: uomini e donne dall’aspetto molto popolare, tanta semplicità e nessuna eleganza. Noto che pochissimi sono i giovani frequentatori, forse hanno ben altro da fare. Le grandi sale sono abbastanza ovattate ma ogni tanto si sentono delle urla a causa di un colpo grosso. Gli abitanti di Macau sono solo circa 650.000 ma le sale da gioco offrono navette gratuite per consentire di raggiungere il confine con la Cina Popolare. I casinò sono sempre collegati ad un grande albergo, anche il mio (Casa Real) ne ospita uno di due piani. Affollato la sera ma già attivo alle otto del mattino quando scendo per la colazione. Al Grand Lisboa tre piani di sale gioco, tutte circolari, kitch come lo stabile esterno, e uno gran spreco di luci. Ospita anche un ristorante tristellato ma in ogni caso io scelgo una sala molto più popolare. Per pranzo riso e fettine di maiale inaspettatamente buone ma per cena sempre zuppe di pesce nei ristoranti vicino all’albergo. La prima mi viene servita con una grande testa di pesce, tofu (che non mangio), lemongrass e tre fettine di una specie di tartufo. Molto buona e piuttosto delicata. La seconda sera una zuppa mista di seafood: gamberi, tre enormi cozze, e pezzetti di seppie. Nel brodo, che ribolle sul mio tavolo, pomodori, fette di limone, erbe e spezie. Solo piccantina all’inizio ma man mano che il brodo si restringe diventa sempre più saporita. Verdure fresche ed una salsina di soia con aglio, erbe e prezzemolo concludono l’insieme. The per accompagnare la zuppa e una mezza arancia per concludere. Davvero una bella esperienza per una ventina di euro. La cucina portoghese … non pervenuta così come la lingua: nessuno parla più il portoghese, pochissimi l’inglese e, in generale, tanto, tanto cinese.
DA UNA EX COLONIA ALL’ALTRA
Lo chiamano ferry ma in realtà è un catamarano rosso, veloce, che in poco più di un’ora copre la distanza tra Hong Kong e Macao. Sulla destra si vedono numerose isole e isolotti dalle coste frastagliate e versanti rigogliosi. Si attraversa un tratto di mare aperto ed è impossibile non notare il ponte Hong Kong – Zhuhai – Macau. Una volta terminato, e manca davvero poco, sarà considerato il ponte più lungo al mondo grazie ai suoi 55 km complessivi. Un sistema infinito di arcate interrotte da tre ampi passaggi per le navi di grande stazza. Lungo la rotta incrociamo anche diverse barche di pescatori dotate di grandi reti, qui il mare è pescosissimo. Un intreccio di strade sopraelevate ci annuncia che stiamo entrando in porto. Sbarcando noto subito la prima differenza: le doppie lingue qui sono l’inglese ed il portoghese.

HONG KONG – DA EX COLONIA INGLESE A CINA MODERNA
Fatico ad immaginare il porto di Hong Kong affollato di vecchie giunche, le barche di giunco (appunto), bialbero con le vele steccate. Fatico anche ad immaginarla come una colonia inglese. Da 27 anni ormai Hong Kong è un territorio autonomo, indipendente, cresciuto e basato sul motto “una nazione, due sistemi”. La trovo molto cinese anche se non mi ricorda affatto Pechino. Prevale in me la sensazione di modernità, mi sento sempre all’ombra di qualche grattacielo, pernotto al venticinquesimo piano circondato da stabili anche più alti. Dalla mia finestra intravedo il mare e per chi abita in pianura il mare è sempre una nota speciale. Battelli e navi mercantili lo attraversano continuamente e lo Star Ferry è in assoluto il suo re. E’ attivo dal 1888, bianco e verde, un po’ vintage, fa la spola attraversando il braccio di mare tra Hong Kong e Kowloon. Se si visita la città non può mancare questa esperienza. Un secondo mezzo di trasporto da provare è il tram che qui, “amichevolmente”, viene chiamato “ding ding” a causa del suo scampanellio. I tram operano dal 1904, a due piani, tutti colorati l’uno diverso l’altro in funzione della pubblicità che propongono: rosa e neri, con orologi o faccioni di belle signorine, e tante altre cose più o meno simpatiche. Il mezzo di trasporto in sé è molto utile, lento ma efficiente, attraversa tutto il Nord dell’isola, sei linee e 120 fermate. Viaggiare su questi tram è sempre emozionante, dal secondo piano si gode la vita della città e sono anche molto utilizzati dalla popolazione locale. Affrontiamo la città iniziando dal Central Pier, un luogo storico del porto. Alla sua sinistra, guardando il mare, notiamo i diversi moli, ognuno con la propria destinazione, mentre sul lato opposto si trova il Maritime Museum, di fronte una grande ruota panoramica. Lasciando il mare mi incammino verso il centro. Grattacieli, centri commerciali, negozi del lusso e negozietti cinesi, luci pubblicitarie ovunque. Persone che si muovono sempre velocemente e un traffico piuttosto intenso. E per muoversi più comodamente, salendo la collina, incontro il Central-Mid-Levels-escalator: il sistema coperto di scale mobili più lungo del mondo (800 metri). Zizzagando attraversa l’area degli uffici del centro per salire a Soho dove si incontrano molti locali e ristoranti, alcuni italiani e persino una pizzeria napoletana, un pub inglese che offre birra Moretti, ma anche una moschea costruita in onore degli uomini di mare indiani. Il percorso termina a metà collina dove incrocia una stradina tutta curve con piante secolari che abbarbicano le loro radici sui muri di contenzione della strada stessa. Scendo verso il Man Mo Temple dedicato alle divinità della letteratura (Man) e della guerra (Mo). Schiacciato sotto i grattacieli che si trovano alle sue spalle fu costruito da ricchi mercanti cinesi nel 1847. All’interno molti fedeli si fermano a pregare e ad accendere bacchette di incenso. Questo ambiente fumoso e un po’ buio, rischiarato dai tanti ceri sugli altari, con grandi spirali di incenso appesi al soffitto, mi trasmette un forte senso di sacralità. Moschea, tempio buddista e taoista, ma anche chiese e collegi cristiani, tutto ciò ci conferma che qui, e sottolineo qui, la libertà religiosa è assicurata. Continuo la salita verso la collina per incontrare la Peak Train Station. Il Peak Train è una specie di teleferica azionata da un cavo di 5 cm di diametro. L’impianto non dimostra i suoi 125 anni di età, tutto è stato perfettamente rinnovato pur mantenendo il suo aspetto antico: un vagone verde con i sedili in legno. In circa otto minuti si raggiunge la sommità ad oltre 400 metri d’altitudine. Impressionante è la sensazione che si prova salendo: il vagone percorre un binario così ripido che i palazzi che si vedono sulla destra sembrano tutti inclinati di almeno 40°, in realtà è solo un effetto ottico. Alla stazione d’arrivo si trovano i soliti centri con commerci, giochi, intrattenimenti e quant’altro. La cosa più interessante è la Terrace 428, una costruzione modernissima, un arco di cerchio capovolto dove si trovano bar e ristorante (dedicato a Forrest Gump, chissà perchè). E dalla terrazza una vista mozzafiato che consente di ammirare tutta la baia e le centinaia di grattacieli dei due versanti del golfo. Siamo sul Victoria Pick che raggiunge i 552 metri slm.
E la gastronomia? La famosa gastronomia di Hong Kong? Nel complesso mi è parsa un po’ deludente, almeno in relazione alle mie aspettative. Ci sono molti ristoranti a gestione famigliare che offrono piatti di qualità media ed un servizio accogliente. Avrei da segnalare una buona zuppa di ossa di maiale con carote e verdure cinesi, deliziosa. Ho trovato buono anche un pesce grigliato con sugo di fagioli neri. All’ottavo piano di un centro commerciale trovo un grande salone affollato da famiglie, è domenica. La cameriera mi fa sedere di fronte ad una anziana signora, non parla inglese ma è molto attiva e mi mette nel piatto dei ritagli di maiale. Io ordino i così tanto decantati gamberi del golfo che però non mi appassionano, vanno meglio i cornetti, tutto accompagnato da riso bianco e the. Vedo che qui viene servito solo quello. Mai speso più di venti euro. Ho voluto anche provare un ristorante importante, lo Yung Kee Restaurant aperto sin dal 1942. E’ il regno dell’oca arrosto cotta nei forni a carbone che viene servita con una salsa aromatica. Ne ho mangiate di migliori. Servizio esageratamente accurato e molto freddo, bevo del the al gelsomino. Chiudo con un conto salato rispetto alla media ed un rapporto prezzo/qualità non proprio conveniente. E il vino? Solo un buon calice di chardonnay argentino sorseggiato durante una sosta presso il bar di un hotel a cinque stelle.








VERSO HONG KONG
Sono in volo seduto tra una ciarliera donna anziana ed un addetto alla sicurezza. Lei, originaria di Hong Kong, parla continuamente consultando il suo cellulare ultramoderno. Quando si riferisce alla Cina Popolare e alla sicurezza abbassa la voce, un po’ di prudenza non guasta mai. Lui ogni mezzora effettua una operazione di controllo percorrendo tutto il corridoio dell’aereo. I tempi della sua attività vengono scanditi da una specie di orologio che porta al polso sinistro collegato (wireless) ad un piccolo attrezzo elettronico che porta sulla spalla, un mix tra una radio-trasmittente ed una macchina fotografica. Inoltre con un conta-persone manuale verifica accuratamente chi sale e chi scende. All’arrivo presso la ex colonia inglese trovo un accurato controllo immigrazione, già ma dopo aver fatto un’estenuante coda all’aeroporto di Pechino lungo il corridoio destinato ai transfert per Hong Kong e Macao. Tutto come se fossero due stati separati, e in effetti lo sono. Governi semi-indipendenti e valute locali: qui vige il Dollaro di Hong Kong mentre a Macao la Pataca. Hanno più o meno lo stesso valore e nulla hanno a che fare con il Renminbi cinese la cui unità base è lo Yuan. Un treno veloce percorre i 25 km che portano alla città passando da un’isola all’altra. Si supera Kowloon, un agglomerato di grattacieli che accoglie due milioni di abitanti. Impressionante, una serie di abitazioni che si susseguono l’una dopo l’altra, mi ricordano solo i termitai africani. A causa del clima tutte sono dotate di AC e chissà quanti ascensori, penso all’enorme quantità di energia richiesta. Taxi rossi ad Hong Kong, vecchiotti ma economici, almeno per noi. Ed ora ho solo bisogno di dormire e di fare riposare la mia schiena.
