Così si presenta Mombasa ai miei occhi, un po’ araba e un po’ indiana. Moschee e templi induisti, donne in sari e donne in “buibui” (lunga tunica nera), altre che indossano abiti variopinti (“kanga”), molte portano lo hijab (velo), uomini in “kanzu” (lunga veste bianca) e tuk tuk ovunque. Un fritto misto in salsa swahili. Mombasa, la seconda città del paese, è molto diversa da Nairobi, è più fatiscente, più caotica, più soffocante. Ha una lunga storia. Di lì sono passati Vasco da Gama con i portoghesi, poi arrivarono gli omaniti ed infine gli inglesi. La città è costruita su un’isola ed è collegata alla terraferma da un solo ponte e da due argini. Io arrivo dalla costa Sud. Neema, la taxista, arriva al resort di Diani Beach con mezz’ora di ritardo. Si scusa ma dice di aver aiutato una vicina di casa che stava per partorire. Imbocchiamo la strada che porta a Likoni. Piccoli villaggi pieni di colore e di vita, palme, un verde rigoglioso. A Likoni una gran confusione di mezzi e di gente, vado verso il ferry boat a piedi mentre sta scaricando auto e passeggeri. Vista la gran confusione seguo il consiglio di un poliziotto e decido di salire in tuk tuk così mi faccio portare direttamente in albergo. Il passaggio sul ferry è breve ed in un attimo arrivo in albergo. Mi prenoto il bus per Lamu e mi rimane il tempo per visitare la città. Lascio l’albergo ed incrocio la Moi Avenue dove trovo le famose quattro zanne bianche d’acciaio. Proseguo e raggiungo il centro direzionale e poi verso sinistra la città vecchia. Un dedalo di strade e stradine che scendono verso il mare dove si trova il porto dei dhow. Trovo molto interessanti le case del secolo scorso che si rifanno allo stile arabo ed all’indiano di Zanzibar. Le strade che portano verso la zona dei pontili sono prevalentemente colorate di giallo, nel disegno mi ricordano l’art deco, ma hanno anche delle finestre ingabbiate, balconcini arabeggianti, meravigliose porte in stile omanita. Una moschea tutta gialla ed una piazza con una vecchia caffettiera al centro. Sono così arrivato al Fort Jesus, una massiccia costruzione gialla che si sta annerendo, a forma angolare , progettata da un architetto italiano. In seguito, con l’arrivo degli omaniti, la struttura è stata massicciamente rinforzata ed arricchita di portali in legno di notevole fattura. Vi è anche un mercato molto vivo che attraverso lentamente in tuk tuk facendo qualche sosta. In particolare noto una forte attività attorno al mercato degli agnelli, ce ne sono a centinaia. Il motivo è molto semplice e mi sfuggiva. La giornata successiva è la festa islamica del sacrifico per cui ogni nucleo famigliare uccide (sgozzando) il proprio agnello per poi cucinarlo e mangiarlo in compagnia. Le strade, il mattino successivo, avevano chiazze di sangue misto a schifezze per questa ragione. Questo mix di culture che segnalavo precedentemente lo avverto anche nella ristorazione. Per pranzo vado al New Chetna, indiano, vegetariano. Dal (la tipica zuppa indiana che adoro), verdure in umido speziate, chapati e nan (pane). I clienti sono solo indiani, singoli o grandi famiglie. Sempre sulla Haile Selassie Road, la principale arteria cittadina, c’è il Blu Room, un’istituzione. Pizza, pollo e gelato le specialità. Qui la sera trovo di tutto: indiani, famiglie e gruppi di amici in stile arabo, le cameriere però indossano pantaloni e maglietta. Tutti, ma proprio tutti, col cellulare in mano grazie al free Wi-Fi. Donne che si fotografano o che scattano selfie ai propri bimbi. Molte anche le donne sole, mamme che accompagnano i bambini per un gelato e gruppi di amiche. Osservo il tavolo di fronte a me, nove tra donne e ragazze dai 10 ai 40 anni, tutte in tunica nera, tutte col velo di diversi colori. Le mani e le braccia sono disegnate con arabeschi o soggetti naturali di colore nero (hennè). Bevono bibite e si condividono un paio di pizze ed un piatto di penne al pomodoro. Ridono, scherzano e si scattano foto. Prima di uscire si sistemano il velo per coprire bene tutti i capelli ed alcune indossano il “niqab”, il velo nero che lascia liberi solo gli occhi. Una ragazzina in niqab uscendo mi saluta agitando la mano. Chissà, forse mi sorrideva.