Lamu, Nairobi, Maralal. Che avventura !

Va bene arrivare in aeroporto sul dhow, veleggiando, ma assistere alla partenza del proprio volo no ! Sbarco al molo dell’aeroporto e mi dirigo verso il check-in, sono abbondantemente in anticipo. Nonostante ci siano solo tre voli di piccoli aerei il check-in va a rilento. Terminate le procedure mi bevo un black tea, tranquillamente. Vedo dei passeggeri che salgono su un anonimo aereo bianco, accende i motori e inizia le operazioni di decollo. La signora del bar vede che ho nel taschino la carta di imbarco di Safarilink e mi dice: quello è il tuo volo! Rimango di sasso. Agitazione nell’aeroporto, gli addetti chiamano il pilota via radio e l’aereo ritorna verso l’aerostazione. A piedi mi incammino sulla pista, si apre il portellone con la scaletta e salgo abordo. Con un pò di vergogna riesco solo a dire “sorry”. Ma come è possibile far partire un aereo senza un annuncio e senza aver contato le carte d’imbarco ? In ogni caso una volta a bordo mi siedo vicino ad un bel signore in camicia bianca. Italiano di Roma, Ermete, regista di pubblicità e cortometraggi. Sta andando a Nairobi per la presentazione di un suo corto ad un festival. Incontro molto interessante, per entrambi credo. Arrivato all’aeroporto Wilson di Nairobi il cellulare non ne vuole sapere di aprire le mail. Il nome e l’indirizzo dell’albergo che ho prenotato sono solo tra le mail, senza connessione non so dove andare. Un’agente di polizia mi offre il suo cellulare che invece è connesso. Tutto rotto ma riesco a digitare, però Outlook non mi vuole accettare ! Solo al terzo tentativo leggo le mie mail ed ho l’informazione che cercavo: Hotel Weston. “Bene” dice la signora, è proprio qui di fronte. Superi il cavalcavia e lo trovi. Bene, allora ci vado a piedi. Il cavalcavia pedonale ha due rampe di scale ripidissime e non è semplice affrontarle col mio bagaglio. Un signore si offre di aiutarmi ed io “no, grazie”, poi arriva una ragazza che insiste e si prende tra le mani le rotelline della valigia. Musuri sana, grazie mille. Lei va verso sinistra ed io a destra. La mattina seguente di nuovo in aeroporto, mi trovo con australiani e neozelandesi che saranno sullo stesso volo. A piedi sulla pista e riconoscimento bagagli, poi si sale. Un Cessna da 12 posti monoelica, che emozione. Capitano, copilota donna ed otto passeggeri. La copilota si gira, ci dà dei cenni sulla sicurezza e andiamo in pista. Decollo lento, sotto di noi si vede il Nairobi National Park e poi si entra tra le nubi. Dopo una mezz’ora le nubi si aprono ed appare il panorama. Aree verdi, campi coltivati, strade e villaggi. La copilota si gira e ci offre un cestino di caramelle di menta. Più avanti il panorama si fà più arido, l’aereo lentamente scende di quota, una decisa virata destra e si imbocca una striscia di terra. Atterraggio perfetto. Non sopporto quando i turisti italiani applaudono il pilota ma questa volta lo farei io. Scambio di sguardi e di sorrisi tra i passeggeri, siamo tutti un pò meravigliati. Siamo atterrati allo Samburu Oryx Air Strip, tre fuoristrada in attesa e null’altro. Chiedo un mezzo per andare a Maralal, forse la domanda è inopportuna. In tre minuti però il problema è risolto. Salgo in macchina con la famiglia neozelandese e attraversiamo il Samburu National Park. Incontriamo gazzelle, un solitario dik dik ed una famiglia di elefanti. Arriviamo al Lodge dove resteranno i neozelandesi, io, invece, vengo accompagnato da Carlo ad Archers Post dove ritrovo l’asfalto. In compagnia di Carlo e di altri ragazzi, uno si chiama Prandoni come un medico missionario, attendo un matatu. Un’oretta di attesa ed arriva il mini bus. Viene caricato fino all’inverosimile tant’è che non riesco a contare quanti adulti, ragazzi e bambine sono saliti. Non c’è spazio neanche per i bagagli, la mia valigia viene caricata sul tetto assieme ad un borsone che vengono fissati con una corda. Io sono seduto davanti, oltre all’autista una signora grassoccia con una bimba in braccio. Si parte verso Wamba, un chilometro e vai con lo sterrato, sconnesso e polveroso. Stiamo per perdere i bagagli legati sul tetto, sosta per stringere la corda. Ripartiti, all’improvviso vediamo il borsone scivolare sul parabrezza. Temo per la mia valigia che però riesce a rimanere sul tetto. Il borsone è stato travolto dal mini bus, strappato, gli abiti disseminati per terra. Il borsone viene messo nel bagagliaio che è già strapieno e si stringe la corda della mia valigia. Il motore, che si è spento da solo, ora non riparte. Giù tutti e harambee. Spingiamo il mezzo in avanti ma non riparte. Tutti dall’altro lato, anche una donna in abiti tradizionali spinge. Il motore in retromarcia riparte e riprendiamo il cammino. Qualche minuto più tardi urla dal fondo, si è aperto il portellone dei bagagli che si sono sparsi sulla pista. La strada attraversa terreni aridi e basse montagne costituite da grandi massi, curve e saliscendi, poi riprende una pista piana. Arriviamo a Wamba alle 17,30, troppo tardi per ripartire per Maralal. Si avvicinano dei ragazzi in moto e mi dicono che conoscono un lodge pulito. Ok, la valigia su una moto, io sull’altra con lo zainetto. Attraversiamo il villaggio e arrivo al Prince Lodge, una camera molto basica ma pulita. Mi costa l’equivalente di 8 € con prima colazione. Non ho pranzato quindi vado al bar-butchery in fianco. Zuppa imbevibile, un agnello immangiabile, passo al black tea. La mattina sono sulla strada dove partono i matatu, quello per Maralal è in partenza, bisogna attendere che si riempi. Dopo le nove si parte, cento metri e siamo fermi a far benzina. Ma non poteva farla prima ? La pista attraversa una zona arida per poi trovare delle colline. La qualità del fondo peggiora ed il matatu in salita tra le pietre va a passo d’uomo. Dopo parecchie curve si arriva su un altopiano semidesertico. Lungo il percorso troviamo molte greggi e qualche piccola mandria di bovini. Non mancano all’appello un paio di zebre ed uno struzzo. Attraversando i villaggi vedo sempre più persone in abiti tradizionali. Sopra Maralal si vedono dei nuvoloni, inizia a piovere ma quando arriviamo in città smette. A piedi, col mio valigione, vado verso il Seasons Hotel & Lodge dove mi aspettavano già ieri. Maralal, sono arrivato !

Una escursione in “dhow”

I dhow, con diverse varianti, sono delle barche a vela che si trovano lungo la costa dell’Africa Orientale e in generale nell’Oceano Indiano. Dhow è un termine generico che sta a indicare barche con lo scafo in legno ed una vela triangolare. Qui a Lamu sono le imbarcazioni più utilizzate secondo la tradizione swhaili. Salpo la mattina dal molo principale, un timoniere ed un aiutante, io sono l’unico passeggero. Si parte a motore ma appena lasciata la costa si apre la vela, il vento non manca. Lascio Lamu con un po’ di nostalgia, rivedo la città dal mare, le sue case bianche, il mio balconcino. Imbocchiamo il Canale di Mikanda racchiuso tra l’isola di Manda e la terraferma. Buttiamo l’ancora vicino ad alcuni scogli per pescare. Cinque ami, incluso il mio, e in un’ora di tempo non abbocca un pesce ! Anche il capitano dice: oggi non mangiano. Fortunatamente abbiamo cibo a bordo per il pranzo. A motore ci portiamo alla Diamond Beach, di fronte a Shela. Fino qualche anno fa era un antico insediamento swahili poi gli abitanti hanno deciso di vendere le loro case e il territorio agli stranieri. Risultato: oggi Shela è una località per turismo di lusso. Sbarchiamo su una lunga spiaggia deserta dell’isola di Manda. Un albergo, un paio di case, piante verdi. Passeggio solitario sul bagnasciuga fino a raggiungere degli scogli e poi un tuffo in acqua. Nel frattempo sul dhow si sta preparando il pranzo: triglia grigliata, riso con un salsa swahili e frutta fresca. Nel primo pomeriggio salpiamo e raggiungiamo a vela il molo dell’aeroporto.

Lamu, un affascinante sito UNESCO

A Lamu si può arrivare solo via mare, non ci sono né ponti né auto. Si sbarca sul molo principale e un grande arco bianco dà il benvenuto a chi arriva: Welcome to Lamu a UNESCO World Heritage City. Lamu è una delle pochissime città dell’Africa sub-sahariana che hanno mantenuto intatta la loro disposizione originale. C’è il lungomare e c’è la città retrostante. Sul lungomare si trovano bianchi edifici in stile indiano con archi, verande e finestre con le imposte. Si trovano la moschea Mskiti Raudha Lamu e la chiesa cattolica. Hanno sede banche ed uffici pubblici, fondazioni e centri culturali, e naturalmente negozietti e ristoranti. Vi è anche la “Riserva degli asinelli”, un’area gestita da un’associazione animalista inglese che si prende cura degli asini. Si perché l’asino fino a poco tempo fa era l’unico mezzo di locomozione e di traporto sull’isola. Asinelli vagabondano liberamente, altri vengono usati per il trasporto delle merci nelle tradizionali ceste di paglia. Qualcuno ancora li usa per muoversi trotterellando ma le motociclette hanno già preso il sopravvento. I ragli, assieme ai canti dei muezzin, sono la colonna sonora della città. Dal lungomare una serie infinita di vicoletti porta sull’altra principale arteria della città: la Harambee Avenue. Il nome non deve però trarre in inganno, si tratta di una stretta stradina pedonale, parallela al lungomare, piena di vita e negozietti. Lungo la Harambee ed in corrispondenza dell’arco di benvenuto, si apre una piazza sempre affollata. I cittadini, che spesso non hanno nulla da fare, stazionano volentieri sotto le due grandi piante che ombreggiano proprio di fronte al Forte, oggi trasformato in Library. Il Forte, costruito agli inizi dell’ottocento, ha sul fronte un bel porticato con una scalinata che porta nel cortile interno con arcate in stile arabo, agli angoli della struttura qualche torre merlata. A sinistra del Forte si trova il mercato in stile arabo con i banchi della frutta e della verdura, ceste piene di cereali, legumi e spezie. Ma la cosa più affascinante è perdersi tra le stradine che si trovano dietro la Harambee Av.  Stradine strette dove il sole si infila solo a mezzogiorno, piene di negozi, di persone che vanno e vengono. Di tanto in tanto si apre una piazzetta, magari con un alberello o piante fiorate. La vita nella città scorre tranquilla e questa sensazione è anche supportata dal fatto che siamo in totale assenza di traffico. Si seguono i ritmi delle tradizioni anche se diversi. Lamu è prevalentemente araba, è più frequente sentire le persone che si salutano con un Salam Aleikum piuttosto che con un Jambo, anche gli abiti degli abitanti sono prevalentemente in stile arabo. Il giovedì sera, considerato prefestivo, gli abitanti affollano il lungomare per una passeggiata o per incontrare amici. I bar ed i ristoranti sono tutti pieni. Il venerdì mattina vengo svegliato alle 4,40 dal canto del primo muezzin, la mattina tutti i fedeli sono in moschea per le preghiere. Il pomeriggio verso le cinque vedo tutti gli uomini vestiti con le tuniche perfettamente lavate e stirate che vanno verso la moschea. Il sabato sera invece è piuttosto tranquillo, forse perché è giorno di pioggia. La domenica mattina si dice messa nella chiesa cattolica. Poche preghiere, molti canti, qualche discorso, applausi e risate. Sembra una messa molto divertente. Nel pomeriggio la gente di nuovo passeggia sotto un bel sole caldo ma verso sera, immancabilmente, un fresco venticello rinfresca l’ambiente.

 

In bus verso Lamu

Il taxi che avevo prenotato per le sei del mattino non si presenta. Con l’aiuto del guardiano dell’albergo riesco a fermare un tuk tuk. Simba Coach, please. Mi lascia davanti all’uffico prenotazioni ma il pullman non parte da lì. Un addetto ferma un altro tuk tuk, carica la mia valigia, si siede sul seggiolino anteriore e mi accompagna alla fermata del pullman. Posto numero 6, seduta in fianco a me una giovane mamma velata con una bambina sui tre anni, anch’essa con un velo in testa che cade sulle spalle che non fa trasparire neanche un capello. Alla mia destra però ci sono due giovani ragazze in jeans che sentono musica dal cellulare e scrivono messaggi utilizzando i due pollici. Sembrano due mondi diversi ma qui convivono senza problemi. Il pullman parte quasi puntualmente e percorre il ponte per lasciare la città in direzione Nord. Prima sosta a Malindi, diciamo nella parte araba, riesco a bere un caffè e mangiare un biscotto. Si riparte passando attraverso la parte più turistica di Malindi dove vedo un Supermercato Italiano scritto con i tre colori nazionali. Usciti dalla città, sulla destra, verso il mare, delle vaste saline con qualche montagna di sale. E finalmente la mamma si decide di togliere il velo alla bimba, spuntano delle treccette con fermagli bianchi e rosa. A Garsen controllo sicurezza. Scendiamo tutti dal pullman, allineati, la prima fila controlla i passaporti, la seconda i bagagli. Facciamo un centinaio di metri imboccando la strada che va verso destra ed attendiamo l’arrivo del pullman. Si riparte ! Questa strada che ritorna in direzione del mare è completamente sterrata, la polvere entra a manate. Il terreno che attraversiamo è abbastanza verde,  vedo qualche coltivazione e capanne molto povere, a forma di igloo. Sosta in prossimità di una caserma, dobbiamo attendere altri mezzi per formare un convoglio e partire con la scorta armata. Una coda per i bus ed una per le auto. I passeggeri si distribuiscono lungo i fossati della strada cercando un pò d’ombra. Quando i pullman sono cinque si riparte con la scorta. Apre il convoglio un auto dell’esercito con militari a bordo, fucili spianati uno a destra ed uno a sinistra. La bande somale rappresentano un serio problema da queste parti. Dopo una mezz’ora di viaggio un secondo controllo. I locali da una parte, gli stranieri invece sono invitati a recarsi sotto un chiosco di legno dove vengono controllati e registrati i passaporti. Di nuovo in cammino, attraversiamo una zona verde e paludosa con molti ibis. Arriviamo in una cittadina piena di vita con molti negozi, la signora con la bambina scende ed il suo posto viene preso da un signore in tunica bianca con un bambino ancora più piccolo. Finalmente dopo una decina di ore di viaggio si arriva al punto d’imbarco per Lamu. Arriva un ragazzo ben vestito, camicia bianca e cravatta. Tiene tra le mani un biglietto con scritto OSCAR, ok sono io. Perfetto, sono venuti a prendermi. Saliamo su un barcone di legno, un ragazzo si mette la mia valigia sulle spalle, mancetta. Magicamente da un saccone blu vengono estratti dei salvagenti. Quando il barcone è pieno si parte. Una quarantina di minuti e si arriva di fronte a Lamu. Splendida, con le sue moschee, il canto dei muezzin, le case bianche, basse, non un palazzo. Mi trasmette subito qualcosa di positivo, ne sono affascinato. Pernotto allo Stopover Guest House, mi assegnano una grande camera con balcone sul mare. Una piacevole brezza mi dà il benvenuto.

Mombasa, un pò araba, un pò indiana

Così si presenta Mombasa ai miei occhi, un po’ araba e un po’ indiana. Moschee e templi induisti, donne in sari e donne in “buibui” (lunga tunica nera), altre che indossano abiti variopinti (“kanga”), molte portano lo hijab (velo), uomini in “kanzu” (lunga veste bianca) e tuk tuk ovunque. Un fritto misto in salsa swahili. Mombasa, la seconda città del paese, è molto diversa da Nairobi, è più fatiscente, più caotica, più soffocante. Ha una lunga storia. Di lì sono passati Vasco da Gama con i portoghesi, poi arrivarono gli omaniti ed infine gli inglesi. La città è costruita su un’isola ed è collegata alla terraferma da un solo ponte e da due argini. Io arrivo dalla costa Sud. Neema, la taxista, arriva al resort di Diani Beach con mezz’ora di ritardo. Si scusa ma dice di aver aiutato una vicina di casa che stava per partorire. Imbocchiamo la strada che porta a Likoni. Piccoli villaggi pieni di colore e di vita, palme, un verde rigoglioso. A Likoni una gran confusione di mezzi e di gente, vado verso il ferry boat a piedi mentre sta scaricando auto e passeggeri. Vista la gran confusione seguo il consiglio di un poliziotto e decido di salire in tuk tuk così mi faccio portare direttamente in albergo. Il passaggio sul ferry è breve ed in un attimo arrivo in albergo. Mi prenoto il bus per Lamu e mi rimane il tempo per visitare la città. Lascio l’albergo ed incrocio la Moi Avenue dove trovo le famose quattro zanne bianche d’acciaio. Proseguo e raggiungo il centro direzionale e poi verso sinistra la città vecchia. Un dedalo di strade e stradine che scendono verso il mare dove si trova il porto dei dhow. Trovo molto interessanti le case del secolo scorso che si rifanno allo stile arabo ed all’indiano di Zanzibar. Le strade che portano verso la zona dei pontili sono prevalentemente colorate di giallo, nel disegno mi ricordano l’art deco, ma hanno anche delle finestre ingabbiate, balconcini arabeggianti, meravigliose porte in stile omanita. Una moschea tutta gialla ed una piazza con una vecchia caffettiera al centro. Sono così arrivato al Fort Jesus, una massiccia costruzione gialla che si sta annerendo, a forma angolare , progettata da un architetto italiano. In seguito, con l’arrivo degli omaniti, la struttura è stata massicciamente rinforzata ed arricchita di portali in legno di notevole fattura. Vi è anche un mercato molto vivo che attraverso lentamente in tuk tuk facendo qualche sosta. In particolare noto una forte attività attorno al mercato degli agnelli, ce ne sono a centinaia. Il motivo è molto semplice e mi sfuggiva. La giornata successiva è la festa islamica del sacrifico per cui ogni nucleo famigliare uccide (sgozzando) il proprio agnello per poi cucinarlo e mangiarlo in compagnia. Le strade, il mattino successivo, avevano chiazze di sangue misto a schifezze per questa ragione. Questo mix di culture che segnalavo precedentemente lo avverto anche nella ristorazione. Per pranzo vado al New Chetna, indiano, vegetariano. Dal (la tipica zuppa indiana che adoro), verdure in umido speziate, chapati e nan (pane). I clienti sono solo indiani, singoli o grandi famiglie. Sempre sulla Haile Selassie Road, la principale arteria cittadina, c’è il Blu Room, un’istituzione. Pizza, pollo e gelato le specialità. Qui la sera trovo di tutto: indiani, famiglie e gruppi di amici in stile arabo, le cameriere però indossano pantaloni e maglietta. Tutti, ma proprio tutti, col cellulare in mano grazie al free Wi-Fi. Donne che si fotografano o che scattano selfie ai propri bimbi. Molte anche le donne sole, mamme che accompagnano i bambini per un gelato e gruppi di amiche. Osservo il tavolo di fronte a me, nove tra donne e ragazze dai 10 ai 40 anni, tutte in tunica nera, tutte col velo di diversi colori. Le mani e le braccia sono disegnate con arabeschi o soggetti naturali di colore nero (hennè). Bevono bibite e si condividono un paio di pizze ed un piatto di penne al pomodoro. Ridono, scherzano e si scattano foto. Prima di uscire si sistemano il velo per coprire bene tutti i capelli ed alcune indossano il “niqab”, il velo nero che lascia liberi solo gli occhi. Una ragazzina in niqab uscendo mi saluta agitando la mano. Chissà, forse mi sorrideva.

Ed ora un pò di riposo – Diani Beach

Dopo circa trenta giorni di viaggio, levatacce prima dell’alba, migliaia di chilometri percorsi su sterrati polverosi, sento la necessità di prendermi una pausa. Ho bisogno di staccare. Quasi quasi vado al mare. Detto e fatto. Volo per Ukunda, nel Sud Est del paese, a qualche decina di chilometri dal confine con la Tanzania. Appena si esce dalla cabina dell’aereo si ha la sensazione di essere arrivati in un altro mondo. Non sono più sull’altopiano, quì si sente il vento umido dell’Oceano Indiano, sole e cielo azzurro. La sala d’arrivo dell’aeroporto è un semplice gazebo, i bagagli attraversano la pista su un carrello spinto a mano ed ognuno si prende il proprio. Neema, una simpatica taxista col velo, mi accompagna al Jacaranda Indian Ocean Beach Resort già prenotato a Nairobi. Il sales manager mi ha offerto una permanenza a mezza pensione molto scontata, penso sia un trattamento di favore dovuto al fatto che ero un componente del gruppo di GAdventures. Il resort, tutto colorato di bianco, è costruito tra palme, baobab e aiole fiorate. Di fronte una lunga spiaggia bianchissima ed a un centinaio di metri dalla spiaggia la barriera corallina dove si infrangono le onde. Nonostante ciò bagnarsi e nuotare qui è davvero difficile. Le onde arrivano con una tale forza che sbattono in avanti il mio corpo fin sul bagnasciuga. Però è molto divertente. La camera è molto bella, al primo piano di un bungalow, un terrazzino in legno dove sposto un tavolino per scrivere vista mare. Gli unici rumori che sento sono lo sciabordio delle onde ed il canto degli uccelli. Ogni tanto mi fanno visita delle scimmiette, una mi è anche entrata in camera. Fortuna vuole che non è riuscita a prendersi nulla altrimenti dove ritrovi ciò che ti ha preso ? Le occupazioni preferite di questi giorni sono il riposo, l’aggiornamento del blog e lunghe passeggiate a piedi nudi sulla spiaggia. Verso Nord si incrocia il Mwachema River che sfocia in mare tra la spiagge e le mangrovie. Verso Sud un paio di chilometri di spiaggia fino ad arrivare ad alcuni scogli circondati da alghe verdi. A metà strada il mio punto preferito: Copa Cabana. No, non siamo in Brasile, sventolano un paio di bandiere del Kenya. Copa Cabana è un chiosco molto improvvisato, di quelli che piacciono a me. Tutto in legno, teli svolazzanti, ombreggiato, fresco e ventoso. Divanetti, tavoli e sedie, dove si sta sempre coi piedi nella sabbia finissima. Personale simpaticissimo e luogo di incontro di locali. L’unica straniera è una ragazza indiana che vive a Londra, sempre sorridente, amica del proprietario. In particolare la domenica pomeriggio il chiosco è frequentatissimo da famiglie e gruppi di ragazzi. E’ uno di quei posti dove diventi amico di tutti. Un giorno mi preparano dei gamberi grigliati, il giorno seguente calamari grigliati. Un po’ di riso con salsina swahili e … Sauvignon Blanc del Sudafrica, bello fresco. E cosa vuoi di più dalla vita ?

La mia Africa, un omaggio a Karen Blixen

Raramente un film supera il libro, ma questo, a mio parere, è proprio il caso. Grazie a Sydney Pollack che ha diretto il movie ed alle due grandi interpretazioni dell’elegante Meryl Streep e l’affascinante Robert Redford. Sette premi Oscar, tre Golden Globe, e tanti altri riconoscimenti in tutto il mondo, Italia compresa (Premio César, un Nastro d’argento e due David di Donatello), ne confermano la qualità. La mia Africa è una appassionante storia di una coraggiosa e determinata donna danese che, dopo aver sposato un uomo che non amava, viene in Kenya a vivere. E ci passa ben quindici anni della sua vita. Sfida tutto e tutti per coltivare e produrre caffè assieme ai suoi Kikuyu ma soprattutto si innamora di un bella persona, Denys, un cacciatore, un’animo gentile che però muore troppo presto cadendo col suo aeroplano. Come dimenticare quel volo in aereo sopra il lago Nakuru pieno di fenicotteri, o quella cena al campo durante il safari, o quella coppia di leoni che si recava con regolarità sotto la pianta dove Denys è stato sotterrato. Appena ho saputo che la casa della Blixen è stata trasformata in museo ho appoggiato la proposta di Matt che aveva chiesto a George di organizzarci una visita. E così è stato. Si entra in un grande parco e appare casa Blixen. Bassa, solo piano terra ed un piano mansardato, larga, estesa, con un bel porticato sul fronte, disegnata da un architetto svedese. Nel giardino un vecchio trattore dell’epoca. Si entra con una sensazione di fresco, un soggiorno, la sala da pranzo con un lungo tavolo imbandito. Un vaso di fiori al centro e ceramiche bianche e azzurre. Il tavolo è preparato così come lo era una sera del 1928 quando Karen ebbe come ospite H.E. Edward, principe di Galles. Lo studio di Karen con una libreria, una scrivania ed una vecchia macchina per scrivere. Un salotto con camino e la camera da letto di Karen. Letto, biancheria e toilette tutto in bianco, un divanetto ed una sedia fiorati. Il bagno con una vasca e poi la stanza del marito, anch’essa bianca ma con il letto ad una sola piazza. Un baule da viaggio e nell’armadio sono appesi gli abiti originali, i cappelli e gli stivaloni neri, indossati da Klaus Maria Brandauer che nel film interpretò il marito infedele. Sul retro la cucina con una vecchia stufa a legna, una dispensa con le stoviglie ed un grande attrezzo cilindrico di fabbricazione inglese per filtrare l’acqua. Dal retro della casa si esce in giardino, sulla sinistra un cipresso italiano piantato nel 1931, lo stesso anno che Karen lasciò il Kenya per fare ritorno in Danimarca. Imbocchiamo il sentiero per arrivare alla macchina utilizzata per la tostatura del caffè, proseguiamo il cammino attraversando un fitto boschetto per sbucare in un grande spiazzo erboso con un’aiola fiorata in centro. La visita della casa museo termina qui ma non lasciamo i territori della Blixen. Arriviamo al Tamambo, restaurant and bar, nel Karen Blixen Coffee Garden. All’ombra di piante tropicali ci viene servita un’ottima insalata ed un buon pesce grigliato accompagnato da un anello di cipolla fritta, verdure miste e riso. Un calice di vino bianco sudafricano è d’obbligo.

L’orfanotrofio degli elefanti

Già il nome ha dell’incredibile: orfanotrofio degli elefanti. Siamo a Sud di Nairobi, poco fuori la città, e visitiamo il David Sheldrick Wildlife Orphans’ Project. Una folla di turisti è in attesa di entrare, alle undici in punto si aprono i cancelli, i visitatori si dispongono attorno ad una corda che fa da recinto. Due carriole cariche di grandi biberon di latte attendono di essere bevuti. Dopo qualche minuto entrano gli inservienti in camice verde seguiti da elefantini di due/tre anni. Sono stati  trovati e raccolti sul territorio nazionale perché vagavano solitari, orfani e abbandonati, o forse semplicemente persi. Gli elefantini entrano affamati nello spazio di terra rossa a loro adibito e si fanno infilare volentieri in bocca i biberon. Sono ancora privi di zanne e con la proboscide si sorreggono il biberon. Mangiano un po’ di foglie secche sparse sul terreno, bevono acqua. Insomma un buon pranzetto e, siccome sono ancora dei cuccioli, giocano, si sdraiano sulla terra, si fanno accarezzare dai visitatori. Escono i piccoli ed entrano i più grandicelli 4/5 anni. Loro hanno già un accenno di zanne ma si fanno infilare in bocca il biberon di latte con grande piacere. Anche loro giocano, bevono, e si spruzzano la terra sulla testa. All’uscita il centro raccoglie le adozioni, con cinquanta dollari si adotta un elefante per un anno, con tanto di certificato e le fotografie per essere informati sulla crescita.

Il “Turismo Sostenibile”

Secondo il WTO ( Organizzazione Mondiale del Turismo ) si intende per “Turismo Sostenibile” una forma di turismo che “soddisfa i bisogni del viaggiatore e delle regioni ospitanti e allo stesso tempo protegge e migliora le opportunità per il futuro”.

Il Viaggiatore Viaggiante sposa completamente questo approccio.

I bisogni del viaggiatore sono quelli di vedere, conoscere, capire, imparare, incontrare persone e culture diverse. Mi rendo conto però che viaggiare ha anche un forte impatto sulla natura, inevitabilmente genera emissioni, inquina e brucia risorse naturali e last but not least, può creare problemi alle popolazioni incontrate. Detto ciò non ci dobbiamo rintanare nelle nostre case, anzi, dobbiamo viaggiare il più possibile, ma in modo sostenibile appunto. Tutto questo preambolo mi serve solo per ringraziare e congratularmi con National Geografic e GAdventures perché in queste intense settimane non solo ci hanno messo a contatto con un bellissimo mondo naturale ma ci hanno fatto incontrare persone straordinarie che cercano di dare un futuro migliore a questo continente. Con immenso piacere ho acquistato i prodotti artigianali, ho visitato i centri di lavoro femminile, ho pranzato tra le comunità locali, ho visitato il villaggio masai sapendo che l’importo del nostro ingresso contribuisce a sostenere la loro scuola.

Il rientro a Nairobi ed i saluti

Torniamo a Nairobi per la strada più breve incrociando file infinite di camion che provengono dal porto di Mombasa. Salutiamo Joseph, il nostro bravissimo autista, e George, una guida molto professionale. Prima di lasciarci però ci organizza tutte le attività per il giorno seguente. Nel pomeriggio visitiamo il National Museum. La sala principale è dedicata ai mammiferi, al centro un elefante africano imbalsamato ed uno scheletro, sempre d’elefante. La sala certamente più interessante è quella dedicata allo sviluppo della razza umana. Ormai non ci sono più dubbi, l’origine della nostra specie si è verificata tra il lago Turkana (Nord del Kenia) e l’Etiopia. In una nuova sala sono esposti teschi di 2/3 milioni d’anni fa e la copia di due scheletri, inclusa la famosa etiope Lucy. Fossili e antichi utensili ci raccontano la nostra preistoria, io però sono attratto da una serie di pannelli che spiegano lo stato di evoluzione dell’uomo. In particolare mi colpisce l’ultimo: Mi sto evolvendo ? ….. La nostra evoluzione ha prodotto uno stupefacente primate, ma siamo così abbastanza intelligenti per assicurarci un futuro ? Con questa grande domanda che mi frulla nella testa ( io so che la risposta è NO! ) rientriamo in albergo. Le due signore canadesi passano la serata nelle loro camere. Con Matt, professore di Washington DC (non omette mai di dire D.C.), ceno nel ristorante dell’albergo scambiando una piacevolissima chiaccherata. Ma prima di cena, come gli avevo promesso già qualche giorno prima, gli ho offerto un “vun in du”, per i non milanesi un Campari col bianco, cioè uno in due. Matt già un paio di volte ha bevuto Campari e così ho voluto mostragli la nostra tradizione. Ho ordinato del vino bianco e con lo stupore del barista ho versato il Campari. E pensare che l’azienda che ha sede proprio di fronte a casa mia ha rifiutato di sponsorizzare il mio blog !