La steppa del Nord

I quattro fuoristrada ci attendono fuori dall’albergo, si parte allineati, l’auto bianca apre la colonna. Si esce dalla città e si entra nella steppa. Lunghi rettilinei portano verso Nord attraverso verdi vallate e dolci colline che in realtà sono montagne perché siamo su un altopiano di 1.400 m s.l.m. L’erba è verde chiara perché quest’estate è poco piovosa, in compenso l’inverno è stato molto freddo. Sulle colline, e solo sulle colline, si incontrano alberi e piccoli boschi. La temperatura è molto alta, sopra i 30°, e il sole picchia forte. A Bayagol sosta per il pranzo, ravioloni in brodo con carne di montone. Più avanti si cambia direzione, ora ci dirigiamo verso Ovest e dopo una mezz’ora improvvisamente l’autista imbocca uno sterrato. Le piste si intrecciano, si superano dossi e avvallamenti e dopo circa un’ora vediamo in fondo alla valle il monastero, alle sue spalle, sulle montagne, un monumento di Buddha ed un grande stupa. Il cielo azzurro è macchiato da fantasiose nuvole bianche, leggere. Si supera un muro dove si lasciano alle spalle le brutte cose della vita e si entra nel mondo della pace. Il monastero di Amarbayasgalant è il meglio conservato di tutta la Mongolia. Di culto buddista tibetano, maggioritario nel paese, è stato costruito attorno al 1730 per volontà dell’imperatore Yongzheng in onore del monaco Zanabazar. Stranamente risparmiato dalla distruzione stalinista quando risiedevano oltre 2.000 monaci, oggi ne ospita solo una trentina. Si entra attraverso un androne con quattro grandi statue colorate che raffigurano i protettori del tempio. Si entra nell’edificio principale e all’interno appare una ricca decorazione con il rosso che la fa da padrone. Fresco, silenzio, nessuna funzione è in corso. Al centro della sala grandi colonne, le panche dei monaci ed un tamburo colorato. Sul fondo un altare con le donazioni dei fedeli: banconote, cereali, latte e biscotti. Arriva una famiglia e, mentre una madre allatta al seno il proprio bimbo, un giovane monaco inizia a pregare attraverso quei sordi suoni della liturgia tibetana. Non so perché ma questi suoni mi emozionano sempre molto. Uscendo si incontrano le solite serie di cilindri della preghiera buddista che vengono fatti ruotare da un vecchio sostenuto sotto braccio dal figlio. Sulla destra della collina una lunga scalinata tutta bianca porta ad una dorata statua del Buddha. Notevole il panorama della vallata dall’alto: lì sotto il monastero e poi la veduta si perde verso le verdi montagne. Sul Lato opposto uno stupa bianco sormontato da quattro coppie di occhi rivolti verso i quattro punti cardinali sormontati da una corona dorata. Riprendiamo il cammino ed arriviamo al nostro primo campo ger. Recinto in legno, una costruzione in muratura che ospita il ristorante e, disseminate sul prato, una ventina di tende ger, in occidente chiamate anche yurtha. Si entra attraverso una bassa porta in legno, al centro una stufa in ferro con camino che fuoriesce verso l’alto, attorno tre letti. Condivido la ger con Trevor e Arturo, un quarantenne venezuelano che abita da decenni in California. Durante la notte una quindicina di cavalli entra nel recinto, nitriscono, e brucano attorno le tende. La mattina si riparte sempre verso Ovest. Sosta ad un passo, siamo a circa 2.400 m. Un monumento segna il confine tra due diverse regioni e poco più in là c’è uno ovoo, il tipico cumulo di pietre dello sciamanismo. Oltre alle pietre, al bastone centrale ricoperto di teli bianchi e azzurri, sono stati appoggiati un teschio di animale, alcuni copertoni di bicicletta, stampelle. Secondo la tradizione dello sciamanismo raccolgo un sasso, giro attorno al cumulo in senso orario per tre volte, lancio il sasso sull’ovoo. Questo dovrebbe scacciare tutti i mali ed augurare una buona vita. Basta crederci. Riprendiamo la strada e sostiamo a Erdenet per il pranzo. Una città pulita, ordinata, con palazzi moderni dove il bianco si alterna a colori molto vivi: il giallo, il rosso, il blu. Di nuovo in auto, oggi si fanno complessivamente circa sette ore di viaggio. Sul profilo di un dosso appaiono una decina di profili scuri, sono aquile. Sosta improvvisa. Aquile dall’apertura alare di oltre tre metri volano sopra le nostre teste, volteggiano disegnando ampi cerchi e ritornano a terra. Arriviamo al campo ger e facciamo una breve escursione sul vulcano Uran Uul spentosi solo nel XIII secolo, ora ricoperto da prati e boschi. Ceniamo al primo piano del ristorante con vetrate a 360°, mio zio lo chiamava “pane e panorama”. Per cena abbiamo carne di manzo con riso e verdure. Col buio le bianche nuvole leggere diventano grigie e pesanti, dopo il tramonto assumono un colore nero, minaccioso. La mattina invece si riparte col cielo terso. Sosta per il pranzo presso un ristorante famigliare. Una casetta in legno con il nostro primo wooden toilet: una baracca di legno senza porte, un buco nella terra ed assi disposte per traverso. Attenzione a non mettere un piede in fallo ! All’interno del ristorante una cucina a vista con la signora grassoccia che cuoce tutto nel wok, poco dopo arriva anche il possente marito ad aiutarla. Io opto per riso fritto con verdure. Verso sera arriviamo a Selenge River dove saremo ospiti di una famiglia nomade e dormiremo in tenda.

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