La Transiberiana

La stazione Iaroslavska è un edificio imponente e forse l’illuminazione notturna accentua questa percezione. Due enormi colonne ai lati sovrastate da un grande arco che racchiude una falce e martello. Nell’atrio il tabellone luminoso visualizza gli orari ed i binari dei treni in partenza. Il primo è lo 004, Mockba – Pekin, binario 1. Un brivido mi corre lungo la schiena ed arriva fino alle gambe. E’ l’emozione, forte. Una signora mi fa cenno di camminare sulla destra e di andare fino in fondo alla stazione. Arrivo al binario 1. Carrozza 11, salgo, un ferroviere cinese mi indica il posto 17 ma è già occupato. Nello scompartimento ci sono quattro signore di età diversa. L’inglese mi chiede un cambio di posto ed il ferroviere cinese annuisce. Occupo quindi il posto 21, sarà la mia sistemazione per le prossime cinque notti. Condivido lo scompartimento con una ragazza di Lisbona, Zara. Architetto ma lavora come segretaria per una ONG, viaggia da sola in direzione Cina. Il treno è vecchiotto e la seconda classe non offre molti confort: quattro semplici cuccette e un ventilatore, il bagno molto basico, però pulito. La prima classe è decisamente meglio, due cuccette, tutta in legno, bagno privato. Non l’ho scelta volutamente perché volevo stare con più persone, ora forse sono un po’ pentito. Alle 23.55 il treno parte in perfetto orario, all’una spegniamo le luci e buonanotte. Durante la notte il treno fa due fermate ma dormo profondamente. La mattina si incomincia a vedere il panorama: il colore prevalente è il verde dei boschi, i prati hanno grosse macchie violette di lavanda. Di tanto in tanto si scorge qualche piccolo villaggio, vecchie case in legno. Il vagone ristorante è chiuso nonostante un cartello indichi l’apertura alle ore 9,00. Berrei qualcosa di caldo ma non ho appetito, posso attendere l’ora di pranzo. Dopo l’una andiamo a pranzare, accanto a noi si siede una coppia danese della mia età. Zuppa, un ottimo caviale di salmone e condividiamo una bottiglia di vino rosso, troppo dolce però. Verso le quattro sosta a Balezino. Piove ma fortunatamente il nostro vagone si ferma proprio sotto un ponte quindi possiamo scendere per sgranchirci le gambe. Alle otto di sera si incontrano i primi palazzi e arriviamo puntualmente a Perm. Qui sono già le dieci, abbiamo superato due fusi orari, il treno però mantiene il fuso orario di Mosca. Scendo, c’è vento ma ha smesso di piovere. Un verificatore controlla i carrelli, un addetto pulisce il cartello Mosca-Ulan Bator-Pechino. Alla ripartenza andiamo al vagone ristorante, incomincia a far buio. Si siedono con noi due giovani norvegesi. Mi faccio servire una zuppa di funghi ed una trota grigliata, una meraviglia servita così bene su un treno. Un bicchiere di vodka chiude la giornata. La seconda mattina inizia sul tardi, il treno scorre tra distese infinite di prati e piante dal tronco chiaro, simili alle nostre betulle. Il cielo rimane grigio, nuvoloso. Per pranzo una buonissima insalata di salmone, caviale, pomodori, cetrioli con crema e senape. A metà pomeriggio arriviamo ad Omsk, siamo entrati in Siberia. In stazione ci sono molti chioschi, una donna vende frutta e verdura, a lato un piccolo ristorante ha una griglia accesa che fuma ma nessun cliente. Il treno riparte ma Zara non è nello scompartimento. Cerco di fermare il treno ma non ci riesco, anche i ferrovieri cinesi sono molto preoccupati. Con l’atteggiamento di un padre premuroso penso a cosa potrò fare, dove lasciare i suoi bagagli incustoditi. Dopo venti minuti lei riappare, l’avrei uccisa. Sorride e vede la mia faccia da incazzato. Comunque il problema è risolto, lei stava solo scattando fotografie ed è salita su un altro vagone ! Verso le 21,30 arriviamo a Barabinsk, l’orologio della stazione indica le 17,30 anche se abbiamo superato il quarto fuso orario da Mosca. Il cielo si è schiarito e splende il sole. In stazione appaiono le prime venditrici di cibo cotto. Una signora offre pesce grigliato. Posso fotografare il pesce ma non lei. Dopocena, alle 01,15, arriviamo puntualissimi a Novosibirsk. Venti minuti di sosta. La mattina mi risveglio grazie alla luce, sono circa le otto ora locale ma le quattro a Mosca. Il cielo è azzurro con qualche nuvola bianca. Continuiamo ad attraversare la grande pianura siberiana, prati ed alberi dal tronco chiaro. Si viaggia per chilometri e chilometri senza incontrare un animale, un’abitazione, un segno dell’attività umana. Arriviamo a Krasnoyarsk, città con palazzi da quindici o venti piani cresciuti in modo disordinato però moderni, puliti. Dopo una grande fabbrica il terreno incomincia a muoversi, arrivano un po’ di colline e abbandoniamo la monotonia. La vegetazione non cambia, riappare la lavanda ed i villaggi sono più frequenti. Ogni isba ha il proprio orticello. Il cielo cambia rapidamente: da coperto ad azzurro con nuvoloni bianchi. Il treno sale dolcemente sulle colline con ampie curve anche se sbanda in continuazione. Alle 13,29 esatte, senza un minuto di ritardo, il treno si ferma alla stazione di Llanskaya. E’ incredibile che dopo oltre 60 ore di viaggio il treno spacchi il minuto ! La stazione è gradevole, bianca e verde, tutto è molto pulito. Qui al posto dei chioschi ci sono dei piccoli market molto ben organizzati. Un paio di signore sistemate oltre la rete di recinzione offrono cibi cotti: pollo grigliato, polpette, frittate e verdure. Proseguendo verso Est riprendono a prevalere gli abeti, un lago diventa rosso grazie agli ultimi raggi sole, la luna, pressoché piena, appare alla sinistra del treno mentre il cielo sta diventando sempre più scuro. Arriviamo a Nizhneudinsk col buio e la stazione è deserta, salgo così direttamente sulla carrozza Pectopah, il ristorante. Ceno con un gruppo di simpatiche norvegesi, una buona zuppa ed una triste fesa di tacchino. C’è anche una festa di compleanno di una ragazza olandese, il suo compagno offre dei biscotti ma è una scusa per bere vodka. Abbiamo raggiunto il quinto fuso orario da Mosca, almeno così dicono i cellulari con data e ora impostati in automatico. Lasciamo il ristorante che sono le due di notte ora locale ma le nove sul fuso di Mosca. Questo doppio timing crea confusione a tutti i passeggeri ma non agli addetti del ristorante. La mattina mi risveglio prima delle otto quando il treno frena bruscamente per fermarsi ad una stazione non menzionata nel nostro itinerario. I passeggeri si stanno lentamente risvegliando e nessuno scende. Il treno sale per colline verdi e repentino appare il lago Bajkal circondato da un arco di basse montagne. Il cielo azzurro si riflette sulle acque del lago che assume quasi lo stesso colore. Lo costeggiamo sul versante meridionale mentre faccio colazione con te, uova e sandwich al salmone. Thomas, un ragazzo belga, come sempre dipinge su carta bellissimi acquarelli, ora sta ritraendo il lago con una bella intonazione di azzurro. Alla destra del treno, cioè verso Sud, appaiono montagne più alte e si creano bellissimi giochi di luci, completano il quadro strisce di nuvole bianche. La linea ferroviaria ora è a pochi metri dalla riva del lago, si vedono famiglie in costume e anziani che passeggiano. Incrociamo vecchie fabbriche abbandonate, entriamo in Ulan Ude. Arriviamo con qualche minuto di ritardo ma qui la sosta è lunga e si recupera. Su una passerella attraverso i binari per andare in stazione, riesco a far due passi in città. Si vedono una cupola dorata ed un campanile a punta di una chiesa ortodossa, una signora con un carretto vende una specie di cola artigianale. Fino ad ora il treno era composto da un locomotore elettrico russo, vagoni di I e II classe cinesi, il ristorante russo ed una carrozza di II classe russa. Qui a Ulan Ude si cambia il locomotore, viene agganciata una motrice diesel, evidentemente la linea elettrica si interrompe. Qui si cambia direzione, ora si va verso Sud. Ulan Ude è una grande città, case e palazzi, molte fabbriche con ciminiere. Il treno sale con molte curve e costeggia un fiume, poi imbocca una larga vallata affiancata da dolci rilievi. Il sole è caldo ma il vento rimane fresco. Più tardi ritorno alla carrozza ristorante, Thomas continua a disegnare i suoi acquarelli, ora disegna paesaggi, raccontando a suo modo la verde vallata. Pranzo con carne di manzo ricoperta da patate e formaggio fuso, piatto consigliato vivamente da Svetlana, la cameriera del vagone ristorante. Ormai per tutti noi è diventata un personaggio, un punto di riferimento. Costeggiamo un altro lago, molto più piccolo del Bajkal, dove gruppi di famiglie fanno campeggio libero. Non ci sono più villaggi, gli alberi diventano sempre meno frequenti e lasciano spazio ai rovi, ai cespugli, l’erba da verde diviene sempre più chiara, giallastra. Qualche mandria di bovini pascola dove l’erba è più verde. Si arriva a Dzhidah dove si fa la sosta più breve di tutto il tragitto: un solo minuto. Verso le venti ora locale arriviamo a Naushki, il posto di frontiera russo. Una stazione bella, pulita, non ci sono altri treni passeggeri. Si scende una quindicina di minuti e poi i ferrovieri cinesi ci fanno risalire. Iniziano i controlli. Una poliziotta controlla il passaporto con un trasmettitore elettronico, dopo un paio di minuti riceve l’ok e appone il timbro d’uscita. Poi arrivano due doganieri che armati di pile controllano ogni cosa e tutti gli angolini, uno si arrampica per controllare il vano vuoto sopra il corridoio. Dopo qualche minuto ci lasciano rientrare nello scompartimento. La sosta dura un paio d’ore e si riparte. Alle 22,20 dell’otto luglio, con qualche minuto di anticipo, il treno entra nella stazione di Sukhbaatar, posto di frontiera mongolo. Vietato scendere. Sale la polizia locale, ci chiedono i passaporti. Il doganiere mi chiama “Oscar”, vuole controllare se la fotografia corrisponde al mio viso, si prende i passaporti che vengono riconsegnati dopo circa un’ora col timbro d’entrata sul visto. Controllo bagagli e il treno riparte verso la capitale dopo circa due ore di sosta. Non passano più di cinque minuti che si affaccia una signora, “change money”. Accetta di tutto e distribuisce tugrik, la valuta mongola. La sua borsetta rossa è una specie di banca. Mostra il cambio su un vecchio telefonino, fa un calcolo rapido, le do i rubli avanzati e mi ritorna una marea di banconote, 406.800 t. Sveglia all’alba con un panorama completamente cambiato. Percorriamo una larga vallata con basse montagne ai lati, non ci sono più piante, solo erba di colore verde chiaro. Si vedono le prime yurta, le famose tende tradizionali dei nomadi mongoli. Entriamo in una vasta area industriale, ciminiere fumanti e torri di raffreddamento cariche di vapore bianco. Emissioni, riscaldamento dell’atmosfera, effetto serra ai massimi livelli. Il treno entra in stazione puntualissimo, ore 6,50 di domenica 9 luglio. Quattro giorni e cinque notti di viaggio, 103 ore complessive. Sono a Ulan Bataar, capitale della Mongolia ! Saluto Zara che prosegue per Pechino e mi fiondo nel bar della stazione, massiccia, di colore grigio. Il caffè è servito solo con il latte, dolcetto e un uovo. Ieri sera, a causa dei controlli di confine, ho saltato la cena. Mentre son seduto al tavolino del bar si siede di fronte a me una signora più larga che alta. Si presenta come taxista e mi offre un passaggio. E perché no ? Ho una grande necessità: farmi una doccia.

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