Pechino

Pechino come Mosca, in questo viaggio, sono considerate due tappe di passaggio. Nonostante ciò vado a visitare il Summer Palace col suo lago e i suoi palazzi. E’ sabato ed una folla di cinesi passeggia nel parco, famiglie intere, gruppi di ragazze, coppiette. La mattina sono in piazza Tienammen di fronte all’ingresso della Città Proibita, anche qui folla. Quasi deserta l’area circostante il mausoleo di Mao perché chiuso per restauri e purtroppo anche questa volta me lo perdo, motivo di più per tornare. Pranzo in un ristorante tradizionale frequentato solo da clienti cinesi. Il piatto tipico qui è una zuppa che bolle sul tavolo nella quale si immerge ciò che è stato ordinato. Io ho scelto sottili filetti di manzo che mi ha consigliato la cameriera ed un misto di verdure e funghetti. La sera cena con dumplings, i ravioli cinesi, ripieni di carne accompagnati da broccoli cotti al vapore. Ceno con Mill, nera americana di Chicago, che fu la guida durante il mio viaggio in Tibet di alcuni anni fa. Non posso lasciare la Cina senza affrontare la nota molto dolente della censura. Facebook, Google, Word Press e tanti altri siti sono ancora bloccati e a quanto pare la situazione peggiorerà a breve. Anche per questo motivo non sono riuscito ad aggiornare il mio blog. E’ una condizione divenuta ormai inaccettabile per un paese che si appresta a diventare la prima economia mondiale. O forse anche questo stato delle cose aiuta ad ottenere quel risultato ?

La Transmongolica

Arrivo in stazione con mezzora di anticipo sull’orario di partenza ed il treno è già lì, pronto, al binario 1. Carrozza 8, condivido lo scompartimento con due polacchi, zio e nipote, ed un ragazzo di Parigi che però sta spesso con le sue amiche nello scompartimento accanto. Questo treno è più moderno del precedente: ampie finestre sigillate, aria condizionata, sedili ricoperti di stoffa ricamata, tappeti lungo i corridoi e negli scompartimenti. Lasciata Ulan Bataar si attraversano le vallate dell’altopiano ma proseguendo verso Sud il panorama si fa piatto, più arido, il verde viene sostituito dal giallo ocra. Dopo le 11 sosta a Choyr e la steppa è sempre più arida, si percorrono chilometri di piatto assoluto. Di tanto in tanto si scorge una tenda ger o dei cavalli che corrono solitari. Vado alla carrozza ristorante per il pranzo. Alle pareti legno lavorato, panche ricoperte di tessuti colorati, un’atmosfera un po’ vintage. Insalata mista, zuppa, manzo con verdure e riso. Molto ben presentato e ben cucinato. Una seconda sosta nel pomeriggio e la Cina si avvicina. Verso le sette di sera arriviamo a Dzamynude, posto di frontiera mongola. La stazione è deserta se si escludono le guardie di frontiera, le porte del vagone sono chiuse, non possiamo scendere. Una agente ritira i passaporti che ci verranno consegnati dopo circa un’ora col timbro d’uscita sul visto. Il treno riparte mentre incomincia a far buio, appare una luna sottile sottile. Circa venti minuti ed arriviamo in Cina. Una bella stazione, ben illuminata, e si intuisce che stiamo entrando nel nuovo impero economico mondiale. Sul marciapiede solo agenti e doganieri, le porte rimangono chiuse. Sale un’agente che ci richiede i passaporti in un buon inglese, controlla se i nostri visi corrispondono alle fotografie, saluta e se ne va col plico di documenti in mano. Inizia la inusuale sostituzione dei carrelli, in Cina lo scartamento è ridotto rispetto a quello russo-mongolo, scelta voluta dai cinesi proprio per evitare “l’invasione” russa. Il treno fa retromarcia ed imbocca una officina dove sono depositati i carrelli cinesi. Mi affaccio al finestrino di fine vagone e con mia sorpresa dietro di noi non c’è più nulla. Allora mi porto sul lato opposto dove vedo l’altro vagone staccato di qualche metro. Tutti i vagoni vengono staccati dagli altri. Ogni vagone viene posizionato in corrispondenza di quattro martinetti rossi. Partono i motori, si avverte qualche piccolo scricchiolio della struttura metallica ed impercettibilmente veniamo sollevati dai carrelli. I vagoni rimangono sospesi a circa un metro e mezzo da terra. Vedo sfilare sotto il mio vagone un trenino di carrelli che vengono poi posizionati nella posizione corretta. Impercettibilmente il vagone viene fatto scendere e quando si appoggia sui carrelli si risente lo scricchiolio metallico. Raggiungiamo la stazione di Erlian e finalmente possiamo scendere. Siamo stati bloccati sul treno per oltre sei ore e per due ore, niente AC e niente ricambio d’aria, bagni chiusi. Finalmente possiamo andare alle toilette della stazione ma è tutto chiuso, non un bar, non un negozio, neanche un chiosco sui binari. Almeno possiamo prendere un po’ d’aria fresca e sgranchirci le gambe. Dopo l’una si riparte e ci stendiamo sulle cuccette. La notte passa tranquillamente. La mattina quando apro gli occhi tutti dormono ancora, guardo fuori dal finestrino e vedo un mondo completamente diverso da quello che avevo lasciato. Verdi colline terrazzate, campi perfettamente coltivati, tutto allineato secondo una logica molto geometrica. Superiamo molti tunnel, tunnel ? Che stranezza ! Breve sosta a Zhangjiakounan, una città moderna con tanti palazzi nuovissimi, solo otto minuti e si riparte. Mentre ancora molti passeggeri dormono vado a fare colazione: te cinese finalmente senza bustina, marmellata ed una frittata che naviga nell’olio. Va bene lo stesso, ieri sera non ho cenato. La carrozza ristorante è molto anonima, moderna, tutto bianco e grigio chiaro. Arrivano le montagne i cui profili si confondono nel grigiore del cielo. Vedo strade moderne, ponti e viadotti, gallerie, qualche fabbrica. Il paesaggio si fa sempre più bello: montagne scoscese, fiumi e laghi. All’uscita di ogni tunnel una vista panoramica diversa dalla precedente. Sono le undici ed arrivano le fabbriche, alte ciminiere e grosse torri di raffreddamento, tralicci ed elettrodotti e nel grigiore del cielo spuntano i primi palazzi. Il treno rallenta ed entra nella stazione.
Il sogno Mosca – Pechino via terra, vecchio ormai di quarant’anni, si è realizzato !

La statua di Chinngis Khan ed il Parco Terelj

Non mai visto una statua del genere: 40 m di altezza, in argento, poggia su quattro piloni in acciaio racchiusi da uno stabile rotondo. Realizzata con finanziamenti privati per l’ottocentesimo anniversario della nascita di Chinggis (per noi Gengis) Khan. Il condottiero è raffigurato su un cavallo nella cui coda è stato costruito un ascensore. La statua si trova nel bel mezzo di una verde vallata, isolata, ad un’ora di auto da Ulan Bataar, ad Est della capitale. Si entra nello stabile rotondo e si apre una grande sala dove sulla sinistra si trova la riproduzione di un tipico stivale mongolo alto almeno 5 metri. Nel sotterraneo un piccolo museo raccoglie armi e costumi dell’epoca. Con l’ascensore si sale fino al dorso del cavallo e lo si attraversa percorrendo un corridoio e delle scale. Ci si ritrova all’aperto su una balconata in corrispondenza della criniera dell’animale dalla quale si può ammirare il panorama circostante. Una mezzora d’auto e si entra nel Parco Nazionale del Gorkhi-Terelj. Superato il primo villaggio l’autista mi porta presso il campo ger dove passeremo la notte. Il campo è racchiuso da rocce dai morbidi profili ma molto fantasiosi, attorno prati e boschi. L’aria è fresca, pulita, frizzantina, il sole caldo. Dopo pranzo il cielo cambia repentinamente e si mette a piovere, ne approfitto per leggere e riposarmi, poi verso sera cambia rapidamente e ritorna sereno. Cielo terso e colori vivissimi. Una passeggiata sui prati attorno a queste rocce è d’obbligo. Dopocena andiamo a tirare frecce con l’arco, anche qui il bersaglio è una pelle di pecora tesa da quattro legni. Sono con Khatanbaatar, il mio autista, in realtà questo è il suo secondo lavoro, principalmente è un agente di borsa. Per semplicità si fa chiamare Etna. Incomincia a diventar buio e il cielo rimane completamente terso, assenza totale di luna, notte ideale per veder le stelle. Rientro nella mia ger a leggere in attesa che il cielo diventi buio. E’ piuttosto freddo, siamo a 1600 m d’altezza, mi faccio accendere la stufa. Esco dopo le undici e la volta celeste è completamente ricoperta di stelle. Verso Nord il Grande Carro, sul lato opposto la Via Lattea che attraversa il cielo, una stella cadente si mostra per un breve attimo. La mattina seguente il tempo è ancora bello e soleggiato. Dopo colazione una breve passeggiata poi in auto alla scoperta della valle. La strada sale dolcemente poi si devia a sinistra per uno sterrato. Prima sosta davanti ad una roccia la cui forma ricorda una rana. Seconda sosta dove un grande masso è appoggiato ad una base rocciosa, la scaliamo e ci infiliamo in uno stretto passaggio racchiuso tra fredde rocce. Un km più avanti la strada si interrompe e di fronte a me vedo un largo semicerchio roccioso, al centro un tempio: il Baruun Bayan Gol, costruito nel 1740. Risparmiato dalle distruzioni staliniane, è caduto in rovina per incuria e per atti di vandalismo. Oggi si è salvato un solo edificio ma continua ad essere un luogo di culto e di meditazione. Si accede sul fianco di una porta con tetto a pagoda e quattro rappresentazioni sacre, si sale per un sentiero per poi imboccare una scalinata di 108 scalini, numero sacro. Si arriva al tempio e basta voltare la testa all’indietro e si ammira la vallata, prati verdi, foreste e boschi, montagne che superano i duemila metri, cielo blu con qualche nuvola bianca. Si tolgono le scarpe e si entra nel tempio, la struttura è la solita: panche centrali per la preghiera dei monaci, altare con donazioni, statue del Buddha, il tamburo, teli colorati appesi ai pilastri centrali. Lungo il perimetro esterno 108 cilindri della preghiera in colore rosso e giallo. Un centinaio di metri sulla sinistra si trova una grotta e all’interno una pietra con l’impronta dei piedi di Buddha. Sono oltre tremila le impronte di Buddha esistenti nel mondo, esse stanno solo a significare la sua presenza sulla terra. In macchina ci portiamo fino alla fine della valle e la strada termina in prossimità di un albergo di lusso con camere da 1.000 € a notte. Ci fermiamo al primo campo ger per il pranzo. Insalata, zuppa di verdure ed un buonissimo stufato di maiale con verze e carote, un sugo denso un po’ piccante, riso. Mangiamo all’aperto, il vento è piuttosto fresco, la compagnia di Etna piacevole. A questo punto rientriamo in città ripercorrendo la valle, la pianura e la squallida periferia industriale.

La Dolce Vita

Damiano arriva in giacca bianca col colletto tricolore, “Sorry, nervetti are not available today”, io rispondo “in italiano … buongiorno”. La pronuncia della parola “nervetti” mi ha tolto ogni dubbio. Damiano, milanese, gestisce questo ristorante dal nome felliniano nel centro di Ulan Bataar da una decina d’anni. Nel menù, scritto anche in italiano, trovo salumi misti, paste e risotti, ossobuco con polenta, ecc. Dopo una dozzina di giorni di pecora, manzo e yak ne approfitto. “Ho visto il salame di Parma, era la mia seconda scelta” e Damiano ”allora le preparo anche un po’ d’insalata”. La giovane cameriera mongola mi serve un piattino ben presentato al quale Damiano ha aggiunto anche un ottimo prosciutto crudo di Parma. Un calice di Cabernet italiano non può mancare. E il piatto principale ? Spaghetti alla carbonara, buoni, cottura al dente. Ah, che gusto ! Damiano poi si scusa perché non aveva il guanciale ed ha utilizzato una pancetta locale. Che dire ? Scusato ! Quando ci salutiamo mi ringrazia di avergli dato l’occasione di parlare italiano, io invece lo ringrazio per questi sapori italiani che già mi mancavano.

Verso Sud

Lasciamo il lago e si ritorna a Moron. Andiamo verso Sud-Ovest e subito fuori città iniziano le piste della steppa. Le tracce si intersecano, ogni autista sceglie la propria e le auto si incrociano. Pranzo al sacco su un prato verde vicino a dei boschetti. E’ caldo ma il vento ci rinfresca. Uzlii ha organizzato tutto curando ogni particolare: bottigliette d’acqua, khuushuur una specie di “panzerotto” fritto ripieno di carne o verdure, dolcetti. Di nuovo nella steppa, montagne dai dolci profili, grandi branchi di ovini pascolano tranquillamente e spesso attraversano le piste rallentando la nostra velocità. Superiamo due passi con i monumenti che segnano il confine delle diverse provincie. Il cielo è coperto, la terra molto secca, le auto alzano delle lunghe scie di polvere, i finestrini debbono restare rigorosamente chiusi. Ci fermiamo in prossimità di un cimitero di circa 2.500 anni fa. Le pietre inserite verticalmente nella terra sono tombe di guerrieri. Inizia a piovere, ci infiliamo in una stretta valle dove superiamo molti guadi, la strada è molto dissestata, la velocità diminuisce ed i sobbalzi aumentano. Dall’alto vediamo un grosso villaggio molto colorato adagiato in una verde vallata. Entriamo a Jargal, le case sono tutte in legno, di diverso colore, con il tetto spiovente. Qui l’inverno è molto freddo, i – 25° sono la normalità. Superato il villaggio, verso le 18, dopo circa dieci ore di viaggio, arriviamo al ger camp. Ci sono anche le sorgenti calde, dietro le docce c’è una piscina in pietra con una parete in legno di colore azzurro. Da una parte i maschi, dall’altra le femmine. Il cielo si sta aprendo e arriva qualche squarcio di azzurro, poi rapidamente ritorna grigio. Cade qualche goccia di pioggia e appare un arcobaleno che si estende a 180° dal bosco dietro il campo ger fin sul lato opposto per terminare tra le vette di due montagne. Da Nord torna il sereno ed il cielo si colora di rosa sia ad Est che a Ovest, un raro fenomeno. La mattina è fredda, il cielo coperto, si riparte sempre verso Sud. Sosta presso un branco di yak bianchi e neri, condividono il pascolo con mucche e vitellini dal pelo marrone chiaro. Gli animali appartengono ad una famiglia di nomadi che ha la propria ger sul versante opposto della vallata. La madre indossa un deel, l’abito tradizionale mongolo, di colore verde scuro, ed osserva gli animali. Poco più tardi arriva anche il marito con una bimba di circa tre anni. Uzlii ci informa che in Mongolia la tradizione vuole che siano le donne a mungere le vacche e le capre mentre gli uomini si occupano dei cavalli. Superiamo due ponti in legno, gli altri sono guadi. Quando la valle si fa stretta la pista è unica ed i quattro fuoristrada proseguono allineati, sempre la bianca nr. 1 davanti a fare strada. Ma appena si entra in una vallata le piste si moltiplicano, si aprono a ventaglio ed ogni autista sceglie il proprio percorso. Il cielo è grigio ed a tratti piove. Superiamo un valico e di fronte a noi si apre l’ennesima vallata ed appare il lago Tsagaan Nuur, una lunga distesa grigia. Oltre il lago si vedono alcune case in legno e le ger per turisti. Ci fermiamo per qualche acquisto in un semplice store ed arriviamo al Khorgo Ger Camp posto in mezzo alla vallata. Yak, ovini e cavalli pascolano liberi, l’erba qui è piuttosto verde. Per pranzo ci viene servita un’ottima zuppa di verze e carote. A volte le cose semplici sono le migliori. Segue carne di yak in umido con riso bollito e patate fritte. Nel pomeriggio scaliamo il vulcano Khorgo Uul, estinto da diversi millenni. Si sale fino all’orlo del cratere e lo percorriamo lungo il suo bordo. Panorami fantastici si aprono davanti ai nostri occhi: verdi vallate, un piccolo paese e il lago che spunta dietro le montagne. Dopocena il cielo si riapre, mi ricorda il cielo d’Irlanda che “si apre e si chiude con il ritmo della musica” (parole di Bubola), il verde della vallata ora è intenso , il cielo blu. Esco per una passeggiata solitaria e lascio che gli occhi si perdano tra terra e cielo. Nel frattempo un pastore a cavallo avvicina gli yak alla sua ger ed un branco di cavalli corre incustodito. Rientro al ger camp quando inizia a diventare buio ed il vento è molto freddo. Incontro i miei compagni di ger, Trevor e Arturo e decidiamo di farci accendere la stufa. Arriva un addetto del campo con legnetti e fiammiferi, in due minuti la temperatura è piacevole. Ci ritroviamo sorridenti indossando solo una T-Shirt mentre si sente il vento che fischia. La mattina ci risvegliamo al freddo ma il cielo è completamente terso ed il sole fa il suo dovere: ci riscalda. Dopo colazione andiamo a fare una strana esperienza: ci infiliamo attraverso una stretta apertura tra le rocce di lava. Io, ma non solo io, passo strisciando schiena e pancia. All’interno una buia grotta lavica dove troviamo anche un piccolo altarino di roccia con qualche donazione. Alcuni monaci vengono qui per fare della meditazione. All’uscita sembra di essere partoriti da Madre Terra e ogni volta che un corpo fuoriesce si sente un wow o un yea. Andiamo verso un paio di siti dove la lava è collassata e ha creato degli enormi buchi rocciosi e caverne. Ritorniamo sul lago. Oggi, grazie al cielo azzurro, il suo colore è blu intenso. Facciamo un giro in barca a motore mentre piccoli stormi di uccelli prendono il volo lasciando scie nell’acqua. Il pomeriggio si divide tra forti piogge e sole, la fisarmonica del cielo è sempre attiva. Verso sera mi faccio una passeggiata solitaria, verso le rocce vulcaniche del fondovalle. Cammino sull’erba ed un terreno morbido, il silenzio è totale, rotto solo dal vento che colpisce il mio corpo e da qualche uccello che prende il volo. Rientrando verso il campo ger, un pastore a bordo di una moto spinge il gregge verso il recinto. Due giovani donne, allegre e sorridenti, sul bordo del torrente lavano pentole e contenitori per il latte. La mattina successiva lasciamo la zona del lago in direzione Sud-Est. Mentre siamo fermi per il rifornimento delle auto un grosso branco di cavalli attraversa la strada. Un cavallo grigio “inciampa” e cade a terra a gambe levate, dopo tre tentativi riesce a rimettersi in piedi e raggiunge il branco. Sul lato opposto una mandria di yak attraversa la strada in senso contrario. Facciamo sosta al canyon Chuluut creatosi a causa di movimenti tellurici, sul fondo scorre un fiume. Dopo circa un’ora sosta alla roccia Taikhar, un blocco di roccia che si erge solitario nella vallata. Alcuni compagni di viaggio ne approfittano per cavalcare degli yak. Finalmente ritroviamo l’asfalto, anche se a tratti interrotto. Sosta per il pranzo e per la prima volta troviamo del pesce fritto, non è un gran che ma ne approfitto. A Tsetserleg visitiamo il monastero ora trasformato in museo. L’edificio principale, l’unico rimasto dopo la distruzione eseguita dalle truppe russe, ha un porticato e tre tetti verdi tipo pagoda. All’interno un originale ger del XIX secolo in feltro grigio, quadri che rappresentano la vita di alcuni secoli fa, armi, strumenti, ecc. Sulla collina a lato si vede una serie di case perfettamente allineate con tetti colorati. Di nuovo in auto mentre inizia a piovere. Percorriamo una verde vallata che a tratti si restringe. Nel tardo pomeriggio arriviamo a Tsenher con le sue hot springs. Ci tuffiamo immediatamente nelle piscine di acqua calda, molto calda. Finalmente un momento di relax. La mattina seguente salutiamo l’autista dell’auto nr. 1, deve rientrare in città per un problema famigliare. L’auto nr. 2 prende il nr. 1 ed arriva un nuovo autista. Un’ora di pista sconnessa prima di ritrovare l’asfalto in direzione Sud-Est. Arriviamo a Kharkhorin, chiamata anche Karakorum. Chinggis Khan nel XIII secolo vi stabilì una base logistica, suo figlio Ogdei costruì una vera e propria capitale, attiva, importante anche a livello internazionale. Tutto ciò durò solo 40 anni fino a quando il fratello più giovane Kublai trasferì la capitale dell’impero mongolo in una località all’epoca modesta chiamata Khanbalik, denominata poi Beijing, l’attuale Pechino. Della capitale Kharkhorin non è rimasta traccia anche se un plastico sito nel Museo cittadino ne mostra la grandezza. Da notare come già allora il regime fosse di grande apertura culturale e religiosa, al contrario di quanto sta succedendo nei tempi odierni in Europa e non solo. Oltre ai templi buddhisti in città si trovavano una chiesa cristiana ed una moschea e la tolleranza era considerata un bene comune. Nel 1586 fu fondato il grande monastero buddhista Erdene Zuu (cento tesori). Dopo periodi di alti e bassi fu quasi completamente distrutto dalle truppe staliniane nel 1936, rimane ignoto il numero di monaci deportati o uccisi nei gulag sovietici. Ora rimane una lunga cinta di mura costellata da 108 (numero sacro) stupa bianchi. All’interno un enorme spazio vuoto, sulla sinistra tre templi con un tetti a pagoda verdi. I tre templi sono dedicati alle tre fasi della vita del Buddha: infanzia, adolescenza e vita adulta. All’interno statue del Buddha e dei protettori, tutto è dipinto con dovizia di particolari, il colore prevalente è sempre il rosso. Più avanti in una ger alcuni monaci pregano su richiesta dei fedeli mentre in fondo al complesso si trova un bianco monastero in stile tibetano: il Lavrin Sum. All’interno una decina di monaci prega, canta e suona i tipici piatti, ognuno ha di fronte a sé il libretto delle preghiere. Riprendiamo il cammino in direzione Est. Appena lasciamo la città il panorama cambia repentinamente. Steppa, arbusti e assenza totale di piante. La strada è asfaltata quindi bisogna pagare il pedaggio. In Mongolia si guida a destra ma la quasi totalità delle vetture ha anche la guida a destra. Io sono seduto sul sedile anteriore dell’auto diventata la nr. 1. Seduto sul sedile posteriore Ulzii prepara 4.000 t e me li passa, porgo le quattro banconote al casellante che mi ritorna una ricevuta, l’importo copre il pedaggio di tutte le quattro auto. Arriviamo al Piccolo Gobi dove tra i prati spuntano dune di sabbia finissima. Alcuni compagni di viaggio montano i cammelli, io preferisco una passeggiata sulle dune. Imbocchiamo una pista e poco dopo le cinque arriviamo all’ultimo nostro campo ger. Un piccolo complesso di tende con una costruzione in cemento, il ristorante, posti all’interno di un arco di rocce. Posizione straordinaria, molto panoramica. Aspettiamo il buio, il cielo è parzialmente coperto ma tra una nuvola e l’altra spuntano la Via Lattea ed il Grande Carro. Alcune stelle cadenti sfrecciano attraversando il cielo. Il giorno seguente rientriamo a Ulan Bataar ed il gruppo si scioglie.

Il lago Khovsgol Nuur

Dopo una notte in tenda mi sveglio con le ossa rotte, passerà una buona mezz’ora per ritrovare la forma. Colazione sull’erba e si ritorna in famiglia. Rientriamo nella ger per i saluti, ci viene offerto un buonissimo yogurth di yak. Si riparte sempre verso Ovest. Sosta sulle rive di un lago salato, intorno grandi macchie di licheni violetti, cielo azzurro con qualche macchia banca. Percorriamo lunghi rettilinei mentre incontriamo piccole mandrie di cavalli allo stato brado, yak, mucche e ovini al pascolo. Pranzo a Moron, riso fritto con verdure e carne. Si supera un primo passo attorno ai 2.300 m, dall’alto si domina il panorama di tutta la verde vallata solcata da fiumi con grandi anse, bovini al pascolo. Si supera un secondo passo, poi ci dirigiamo verso Nord lungo una strada sterrata molto sconnessa. Incomincia a piovere ed il terreno si fa scivoloso. Entriamo nel Khovsgol Nuur National Park, un vasto territorio protetto. Dopo oltre un’ora arriviamo al lago ed il tempo migliora. Prendiamo possesso delle ger e si cena. Il cielo è coperto da pesanti nuvole grigie e nere, uno spiraglio di luce appare solo dietro le montagne dell’altra sponda. Il lago Khovsgol Nuur si estende per 136 km e va quasi a toccare il confine con la Russia, non lontano dal Bajkal. Noi ci troviamo sulla costa orientale, in prossimità di una piccola penisola. La notte è fredda, alcuni ger fumano, all’interno è stata accesa la stufa a legna. La mattina il sole risplende, partiamo per una lunga passeggiata nel bosco, tra un tronco e l’altro spunta il blu intenso del lago. Il terreno è piuttosto scivoloso a causa della pioggia della sera precedente. Dopo un’ora e mezza di buon passo arriviamo presso una tenda dove vive una giovane famiglia. La tenda è costruita secondo la tecnica indiana, il tee pee. Un gruppo di renne sosta all’ombra, per loro il clima estivo è eccessivamente caldo. Un piccolo infila con prepotenza la testa tra le cosce della madre per ricevere il latte, il padre col pelo bianco e grandi corna felpate se ne sta sdraiato sull’erba. Entriamo nella tenda e la famiglia ci accoglie con latte di renna. Una stufa al centro della tenda e appesi ai trochi di sostegno vedo saponette e spazzolini da denti, un asciugamano, legato ad un tronco un cellulare di vecchia generazione. La coppia è attorno alla trentina, il marito con un coltello lavora le corna di renna, la moglie si rivolge a noi con dei bellissimi sorrisi, un bimbo di quattro anni circola attorno a noi e gioca con una macchinina che Matt gli ha regalato. Torniamo al campo ger per il pranzo. Nel pomeriggio provo il tiro con l’arco, sport nazionale. Al quarto tiro azzecco il bersaglio ed al successivo faccio un discreto centro. Il bersaglio è costituito da una pelle essiccata di mucca, di forma triangolare, fissata ad un treppiede di tronchi. Dopocena facciamo un breve giro su un piccolo motoscafo, raggiungiamo la costa opposta, tutta ricoperta da abeti. Il cielo e le nuvole assumono colori da cartolina, rientriamo al campo che inizia a far buio.

Ospiti in famiglia

Una tenda ger come tutte le altre col suo camino centrale, una moto rossa parcheggiata all’esterno, celle solari e parabola tv. Questa è la tenda adibita a soggiorno della famiglia che ci ospita. Padre e madre, una ragazzina, una bimba di due anni e una nonna sempre sorridente. Siamo sulle rive del Selenge River, Mongolia del Nord. Scendiamo dalle auto dopo circa cinque ore di viaggio, tutte su piste sterrate. La moglie ci invitata ad entrare nella ger. Come sempre una stufa al centro con una pentola di latte di cavalla mantenuto caldo, appese ad una corda carni ad esiccare. La carne esiccata è un antico modo di conservare la carne, ne facevano uso anche le truppe mongole che conquistarono quasi tutta l’Asia. Da destra, secondo la tradizione mongola, un mobile adibito a cucina, un divanetto che la sera diventa letto, un mobile con una piccola ma moderna tv, una piccola cassapanca, alcuni seggiolini in legno e plastica, un altro divanetto-letto, e per finire un mobiletto con un piccolo lavandino ed una specie di imbuto dove versarci l’acqua. Tutto molto tipico, tradizionale, ma con alcune modernità. Naturalmente non mancano i telefoni cellulari. Ci sediamo un po’ così, alla rinfusa, come capita, qualcuno si siede per terra perché tra il gruppo e gli autisti lo spazio non abbonda. A tutti viene servito il latte di cavalla ed una specie di formaggio durissimo di latte di capra, così duro che non riesco a spezzarlo tra i denti. Arrivano anche i padroni di casa mentre la bambina piccola dorme raccolta su una coperta, dorme così bene che le nostre voci non la svegliano. Fatte le presentazioni usciamo ed andiamo verso il recinto in legno dove sono già state raccolte le pecore e le capre. I cavalli invece corrono liberi nella steppa. E’ ora di prepararci per la notte, dalle auto escono tende, seggiolini, sacchi a pelo … tipo borsa di Mary Poppins. Le tende si montano in due secondi, i picchetti si infilano nella terra spingendoli con le suole delle scarpe. In dieci minuti abbiamo preparato un vero e proprio campeggio sulle rive del fiume, all’ombra degli alberi. Dai sacchetti e dagli zaini escono lattine di birra e bottiglie di vino: Selly, settantenne californiana, viaggia sempre con bottiglie di vino bianco, e solo bianco, Chardonny (letto sull’etichetta, non è un errore di scrittura 😊) di produzione locale ! Trevor ha sempre sacchetti di lattine o bottiglie di birra. Matt e Amelia, coppia dell’Arizona non scherzano. E via di questo passo. Faccio due passi, si è alzato un forte vento ed in lontananza un nuvolone di polvere nasconde le montagne. Con la sabbia negli occhi vado ad assistere alla preparazione del “barbecue” che in realtà è uno stufato di pecora con verdure. La pecora è stata uccisa per noi e l’abbiamo anche doverosamente pagata. Il cuoco è principalmente l’autista dell’auto 2, il più anziano. Una larga pentola viene posizionata su una stufa a legna sistemata di fronte alla ger. Il vento è così forte che fa volar via anche il camino, oddio è così ruggine che cadrebbe anche con un soffio. Il padrone di casa poi lo fisserà con un fil di ferro ad un tondino di ferro, anch’esso arrugginito. Nella pentola si posizionano i pezzi di pecora già tagliati e vengono inseriti dei sassi già riscaldati sul fuoco. Lo scopo è quello di distribuire bene il calore nella pentola. Al di sopra vengo versate le patate e le carote tagliate a grossi pezzi. Il tutto viene racchiuso da un coperchio, cioè un catino d’allumino, e attorno si stende uno straccio con lo scopo di sigillare pentola e coperchio. La cottura durerà circa due ore. Mentre la carne cuoce ci preoccupiamo di una cavalla che ha una emorragia, il padrone di casa gli inietta un antibiotico. Distribuiamo regalini, io ho portato un sacchetto di caramelle e le porgo alla bimba. Lei ancora con un equilibrio insicuro si rivolge ai presenti ed offre una caramella a tutti. Una scenetta davvero divertente. Quando la cena è pronta tutti entrano nella ger. La pentola viene appoggiata sulla stufa. Per prima cosa si tolgono i sassi che ci vengono consegnati ancora caldissimi per poterli gettare da una mano all’altra. Secondo tradizione ciò è di buon auspicio. Il primo autista ed Uzlii distribuiscono pezzi di pecora e verdure a tutti. La carne dopo circa due ore di cottura risulta tenera e molto saporita. Si può anche aggiungere qualche sottaceto: cetriolini, peperoncini, insalatine. E per concludere, vodka per tutti. Dopocena la ragazzina gioca a pallavolo mentre il cielo sta assumendo disegni e colori da fotografia. Appena il sole tramonta il cielo diventa giallo, arancione, rosso. Le nuvole si muovono grazie ad un forte vento cambiando le condizioni del cielo nel giro di pochi secondi. E quando diventa buio è il momento del falò. Gli autisti avevano già preparato un alto cono di legna secca, lo si accende e ci sediamo tutti attorno. Qualcuno incomincia a cantare, Trevor esegue una tradizionale canzone inglese, Larry mi obbliga a cantare con lui Gianna di Rino Gaetano, è l’unica canzone italiana che conosce. Poi mi chiedono di cantare O’ sole mio, non mi riesce neanche male, tutti applaudono calorosamente. La sera passa bevendo e cantando, il fuoco tende a spegnersi, il freddo aumenta e così ci infiliamo nei sacchi a pelo nelle nostre tende.

La steppa del Nord

I quattro fuoristrada ci attendono fuori dall’albergo, si parte allineati, l’auto bianca apre la colonna. Si esce dalla città e si entra nella steppa. Lunghi rettilinei portano verso Nord attraverso verdi vallate e dolci colline che in realtà sono montagne perché siamo su un altopiano di 1.400 m s.l.m. L’erba è verde chiara perché quest’estate è poco piovosa, in compenso l’inverno è stato molto freddo. Sulle colline, e solo sulle colline, si incontrano alberi e piccoli boschi. La temperatura è molto alta, sopra i 30°, e il sole picchia forte. A Bayagol sosta per il pranzo, ravioloni in brodo con carne di montone. Più avanti si cambia direzione, ora ci dirigiamo verso Ovest e dopo una mezz’ora improvvisamente l’autista imbocca uno sterrato. Le piste si intrecciano, si superano dossi e avvallamenti e dopo circa un’ora vediamo in fondo alla valle il monastero, alle sue spalle, sulle montagne, un monumento di Buddha ed un grande stupa. Il cielo azzurro è macchiato da fantasiose nuvole bianche, leggere. Si supera un muro dove si lasciano alle spalle le brutte cose della vita e si entra nel mondo della pace. Il monastero di Amarbayasgalant è il meglio conservato di tutta la Mongolia. Di culto buddista tibetano, maggioritario nel paese, è stato costruito attorno al 1730 per volontà dell’imperatore Yongzheng in onore del monaco Zanabazar. Stranamente risparmiato dalla distruzione stalinista quando risiedevano oltre 2.000 monaci, oggi ne ospita solo una trentina. Si entra attraverso un androne con quattro grandi statue colorate che raffigurano i protettori del tempio. Si entra nell’edificio principale e all’interno appare una ricca decorazione con il rosso che la fa da padrone. Fresco, silenzio, nessuna funzione è in corso. Al centro della sala grandi colonne, le panche dei monaci ed un tamburo colorato. Sul fondo un altare con le donazioni dei fedeli: banconote, cereali, latte e biscotti. Arriva una famiglia e, mentre una madre allatta al seno il proprio bimbo, un giovane monaco inizia a pregare attraverso quei sordi suoni della liturgia tibetana. Non so perché ma questi suoni mi emozionano sempre molto. Uscendo si incontrano le solite serie di cilindri della preghiera buddista che vengono fatti ruotare da un vecchio sostenuto sotto braccio dal figlio. Sulla destra della collina una lunga scalinata tutta bianca porta ad una dorata statua del Buddha. Notevole il panorama della vallata dall’alto: lì sotto il monastero e poi la veduta si perde verso le verdi montagne. Sul Lato opposto uno stupa bianco sormontato da quattro coppie di occhi rivolti verso i quattro punti cardinali sormontati da una corona dorata. Riprendiamo il cammino ed arriviamo al nostro primo campo ger. Recinto in legno, una costruzione in muratura che ospita il ristorante e, disseminate sul prato, una ventina di tende ger, in occidente chiamate anche yurtha. Si entra attraverso una bassa porta in legno, al centro una stufa in ferro con camino che fuoriesce verso l’alto, attorno tre letti. Condivido la ger con Trevor e Arturo, un quarantenne venezuelano che abita da decenni in California. Durante la notte una quindicina di cavalli entra nel recinto, nitriscono, e brucano attorno le tende. La mattina si riparte sempre verso Ovest. Sosta ad un passo, siamo a circa 2.400 m. Un monumento segna il confine tra due diverse regioni e poco più in là c’è uno ovoo, il tipico cumulo di pietre dello sciamanismo. Oltre alle pietre, al bastone centrale ricoperto di teli bianchi e azzurri, sono stati appoggiati un teschio di animale, alcuni copertoni di bicicletta, stampelle. Secondo la tradizione dello sciamanismo raccolgo un sasso, giro attorno al cumulo in senso orario per tre volte, lancio il sasso sull’ovoo. Questo dovrebbe scacciare tutti i mali ed augurare una buona vita. Basta crederci. Riprendiamo la strada e sostiamo a Erdenet per il pranzo. Una città pulita, ordinata, con palazzi moderni dove il bianco si alterna a colori molto vivi: il giallo, il rosso, il blu. Di nuovo in auto, oggi si fanno complessivamente circa sette ore di viaggio. Sul profilo di un dosso appaiono una decina di profili scuri, sono aquile. Sosta improvvisa. Aquile dall’apertura alare di oltre tre metri volano sopra le nostre teste, volteggiano disegnando ampi cerchi e ritornano a terra. Arriviamo al campo ger e facciamo una breve escursione sul vulcano Uran Uul spentosi solo nel XIII secolo, ora ricoperto da prati e boschi. Ceniamo al primo piano del ristorante con vetrate a 360°, mio zio lo chiamava “pane e panorama”. Per cena abbiamo carne di manzo con riso e verdure. Col buio le bianche nuvole leggere diventano grigie e pesanti, dopo il tramonto assumono un colore nero, minaccioso. La mattina invece si riparte col cielo terso. Sosta per il pranzo presso un ristorante famigliare. Una casetta in legno con il nostro primo wooden toilet: una baracca di legno senza porte, un buco nella terra ed assi disposte per traverso. Attenzione a non mettere un piede in fallo ! All’interno del ristorante una cucina a vista con la signora grassoccia che cuoce tutto nel wok, poco dopo arriva anche il possente marito ad aiutarla. Io opto per riso fritto con verdure. Verso sera arriviamo a Selenge River dove saremo ospiti di una famiglia nomade e dormiremo in tenda.

Il Nadaam Festival

Il Nadaam festival si tiene ogni anno l’11 e il 12 luglio. Il Nadaam è l’evento più atteso e più importante del paese. La passione dei mongoli per i giochi di guerra raggiunge il culmine in questi giorni. Ogni villaggio, ogni città, ha il proprio Nadaam, quello che si tiene a Ulan Bataar è ovviamente il più importante. Tutto ha inizio alle 9,30 in piazza Chinggis Khaan, la folla è già in attesa dietro le transenne. Appare un drappello di soldati a cavallo in abiti tradizionali blu, gialli e rossi. Il pubblico applaude al loro passaggio, le bandiere mongole vengono sventolate. Il drappello si ferma davanti alla scalinata del Palazzo del Parlamento, la banda suona l’inno nazionale. Alcuni militari entrano nel palazzo e poco dopo escono con i nove vessilli cerimoniali fatti con code di cavallo sormontati da un tridente. Le code di cavallo sono di colore bianco in segno di pace, quando il paese è in guerra vengono sostituite da quelle di colore nero. Il drappello si dirige verso lo Stadio Nazionale seguito da una folla festante. Fuori dallo stadio centinaia di gazebo, in stile Festa de L’Unità, offrono prodotti artigianali, cibi e bevande, latte di cavalla incluso. Entriamo nello stadio e prendiamo posto sotto il sole. Abbiamo 35° all’ombra, non sarà facile stare sotto il sole molte ore ma come perdere uno spettacolo del genere ? Lo stadio è strapieno, gli spettatori hanno cappelli ed ombrelli aperti. Sfilano nello stadio i cavalieri con i nove vessilli e sale un grande applauso. I nove tridenti vengono lasciati al centro dello stadio, la banda suona di nuovo l’inno nazionale ed il presidente della repubblica , che indossa un tradizionale abito deel di colore grigio con fascia gialla ed un capello anch’esso grigio, tiene un discorso di saluto. Il pubblico applaude. Bene, da questo momento in poi non ho abbastanza parole per descrivere lo spettacolo che dura almeno due ore … e forse neanche questo blog ha caratteri sufficienti. Danze, guerre simulate, enormi uccelli di carta che volano, grandi sagome di animali, colori, colori, colori poi d’un tratto si accende il fuoco dei giochi ed un grande urlo viene lanciato dalla folla. Entrano strane figure che rappresentano gli spiriti, guerrieri a cavallo li combattono. Entrano guerrieri romani in tuniche rosse accompagnati da bighe, guerrieri a cavallo ed arcieri li combattono, i romani formano con gli scudi delle robuste difese ma i guerrieri li accerchiano ed hanno la meglio. Entrano grandi palloni bianchi che vengono lanciati in cielo, ragazze con ombrelli multicolore, bandiere nazionali, e per concludere sfilate lungo la pista d’atletica in stile Olimpiadi. Una famiglia di nomadi con animali, dromedari e yak, seguono motociclisti, un auto anni ’40 con nobili in abiti tradizionali gialli, cavalieri, bande, studenti, monaci, associazioni, ognuno con la propria divisa. Chiudono centinaia di uomini in deel colorati con cappelli. Terminata l’inaugurazione iniziano gli incontri di lotta libera. Omoni con cappello e costume simile a quelli del sumo si incontrano sul prato dello stadio. Dopo molte ore passate sotto un forte sole ci portiamo allo stadio del tiro con l’arco. Ragazzini in costumi colorati tirano frecce verso i bersagli ma poi inizia la vera gara. I concorrenti, tutti in deel tradizionale, si sfidano con molta concentrazione. Uno speaker racconta le sfide mentre i risultati vengono scritti a mano su un tabellone. Il giorno seguente si svolge la corsa a cavallo nella steppa. Noi ci portiamo in prossimità dell’arrivo, la località dista una quarantina di km da Ulan B. Pur partendo la mattina molto presto il parcheggio è già invaso da una marea di auto. Siamo in mezzo ad una affollata vallata ed infatti lo spettacolo migliore è proprio la marea di gente che è venuta per questa importante occasione. Ci posizioniamo a qualche decina di metri dalla linea dell’arrivo mentre lo speaker racconta la gara. D’un tratto appare l’auto della giuria che affianca tre cavalieri lanciati a disputarsi la volata dopo 20 km di corsa. Un urlo lanciato dagli spettatori e poi seguono tutti gli altri concorrenti, da soli o a piccoli gruppi, tutti lanciatissimi, tutti alzano un gran polverone. E dopo la corsa chi tira con l’arco, chi si fa fotografare con un falcone, chi cavalca un cavallo. Ormai è ora di pranzo, molte famiglie fanno dei pic nic sui prati ma gli stand culinari, che da soli costituiscono una piccola città, sono attivissimi. Ogni tipo di carne e zuppe calde vengono offerte al pubblico. Noi andiamo da Mr. Pizza, chissà perché, e ci servono pizze e macedonia sotto il sole mentre siamo sferzati dal vento. Rientriamo in città nel bel mezzo di un ingorgo stradale.

10 luglio 2017 – L’insediamento del Presidente della Repubblica di Mongolia

Quando entro in piazza Chinggis Khaan con Trevor, il mio compagno di stanza inglese, sono circa le dieci del mattino ed è già affollata. La piazza è enorme, in fondo, di fronte a me, si trova il Palazzo del Parlamento. Tutta l’area interna, con al centro il monumento equestre di Sukhbaatar, l’eroe dell’indipendenza della Mongolia dalla Cina, è occupata dalle diverse divisioni dell’esercito, maschili e femminili, tutte con la propria divisa. Tute mimetiche, uniforme di cerimonia e di servizio, capitani plurimedagliati, e le donne ? Tutte indossano una gonna che arriva sopra il ginocchio ! Una banda suona gli inni ufficiali ed i militari lanciano urla sorde. Il neo Presidente, Khaltmaa Battulga, rende omaggio alle truppe perfettamente schierate facendo un ampio giro della piazza a bordo di un fuoristrada scoperto nero. Lui è ritto in piedi e di fronte a sé ha un microfono attraverso il quale saluta le truppe. Battulga, esponente del Partito Democratico, ex Tycoon, ex star di arti marziali, ha recentemente vinto le elezioni presidenziali al ballottaggio contro il presidente uscente Tsakhiagiin Elbegdori. La banda intona l’inno nazionale che viene cantata dal pubblico, il presidente tiene un breve discorso e poi tutti gruppi militari iniziano a sfilare. Al termine della cerimonia si rimuovono le transenne ed i militari incontrano le loro famiglie, baci e abbracci, i bimbi vengono presi in braccio, si scattano foto ricordo.