Statistiche del viaggio e del Blog

Il viaggio si è concluso oggi 16 aprile 2016 ma ecco alcuni dati:

Il Viaggio

Giorni:  200

Settimane:  28 e 1/2

Mesi:  6 e 1/2

Paesi “viaggiati” :   15

Continenti:  6

Numero voli:  43

Ore di volo:  103

Ore di viaggio in treno:  116

Ore di viaggio in auto e bus:  250

Ore di navigazione:  214

Il blog

Numero articoli:  105

Numero commenti:  224 ,  incluse le mie risposte

Il commentatore più assiduo:  Guglielmo con 18 commenti

Visitatori:  2.170

Max Nr. contatti:  943 il giorno 30/01/2016

Totale Nr. visite:  42.646

Il bianco ed il blu di Sidi Bou Said

Sidi Bou Said è una piccola e famosa località sul promontorio di Cartagine, dista solo un quarto d’ora dall’aeroporto di Tunisi. Il centro storico è tutto lastricato con pietre chiare e tutto è colorato di bianco e di blu. I due colori sono stati imposti dal Barone Erlanger per decreto nel 1905. Ancora oggi il paese ha mantenuto questa tipica caratteristica. Tutte le case sono colorate di bianco mentre le finestre e le grate di protezione sono blu. Si sale per una stradina piena di negozi di souvenir e di artigianato e si arriva di fronte al mitico Cafè des Nattes che vanta clienti come il viaggiatore viaggiante (conosco questo locale da qualche decennio ed è in assoluto uno dei miei locali preferiti), Johnny Hallyday, Sean Connery e Clint Eastwood. Di qui passò anche Paul Klee nel 1914 durante il leggendario viaggio in Africa che gli ha consentito di dipingere quei meravigliosi acquarelli che gli appassionati di pittura conoscono molto bene. Si sale verso il bar lungo una scalinata (bianca ovviamente) e sui due lati due terrazzini con tutte le rifiniture in blu (ovviamente). Da qui si scorge il mare e la costa, si gode il panorama che finisce con Cartagine e la città di Tunisi. L’interno non ha sedie ma solo gradoni rialzati ricoperti da comode stuoie, i tavolini in legno sono alti una ventina di centimetri. Al centro del locale due aree rialzate, ognuna dotata di  quattro bellissime colonne laccate in rosso e verde. Alle pareti antichi quadri ed oggetti storici, in fondo un bancone. Ma il Cafè de Nattes non è solo bello e tipico, serve uno dei migliori the alla menta del mondo, almeno a mio parere. Il the viene servito in un bicchiere di vetro col manico, sul bordo vengono deposte le foglie di menta. In aggiunta si possono avere dei frutti molto simili ai pinoli. Naturalmente è possibile fumare la chicha ma vengono serviti anche dei bellissimi vassoietti di dolci tipici, molto, molto dolci. Proseguendo lungo la strada principale, al termine di una breve scala, si trova la moschea col minareto. Il paese si estende sulla collinetta, piccole erte, scalinate, e si arriva presso Dar Fatma dove alloggio. Un B&B con sole sette camere. Un antico portone d’ingresso e si accede in un patio dove si consuma la colazione. La mia camera è al piano superiore, si accede tramite una stretta e ripida scala con gli scalini tutti colorati. La stanza è molto fresca, bianca e pulita. Una finestra con persiane in legno blu dà sul patio, una seconda finestra con la griglia metallica blu dà su uno stretto vicolo pedonale. Il bagno ha una piccola finestrella, sul davanzale due piccioni hanno stabilito il loro nido. Poco sopra il B&B un faro ed un piccolo cimitero con vista mare. Un luogo meraviglioso dove riposare dopo la vita terrena. Un panorama sul mare e sulla costa Tunisina, sul paese e più in fondo Tunisi. Grazie ad un sentiero scosceso e mal tenuto si arriva al mare. Un piccolo porto turistico, una spiaggia e l’Amphitrite, un ristorante con una bellissima terrazza sul mare, colonnine bianche ed un pergolato. Qui mangio una insalata tunisina (lattuga, olive, tonno, uovo sodo e l’immancabile salsina piccante) ed un buon pesce grigliato. Pessimo il servizio. Un altro buon ristorante in paese è il Dar Zarrouk, piuttosto elegante con grandi finestre ad arco che offrono un bellissimo panorama sul mare. Qui assaggio un buon brick con uovo e gamberi. Il brick è un tipico piatto tunisino, si tratta di una sfoglia di pasta fritta in olio, ripiena di uovo, carne o gamberi. Una seconda volta scelgo dei buoni spaghetti al pomodoro con cinque grandi gamberi. Alla Pavarotti, ma cosa centrerà il grande tenore italiano con questa ricetta ? L’ultima sera vado al ristorante Au Bon Vieux Temps, un locale elegante che ha avuto un sacco di ospiti illustri le cui fotografie sono appese alle pareti. La sala ristorante è al piano superiore, plafone in legno, colonne antiche ed ampie finestre che danno sul mare. Qui mi godo un bel cous cous au poisson con ceci, carote, patate e zucchine. Un Gris De Hammamet, rosè, completa la cena. E dopo aver sorseggiato l’ultimo the alla menta al Cafè des Nattes posso lasciare la Tunisia, rientrare a Milano via Roma e chiudere questa meravigliosa, unica, eccezionale, straordinaria … ci sono altri termini disponibili ? … esperienza.

Ed ora direzione Italia

Tornato a Gambela dopo la straordinaria esperienza di Abobo finalmente, dopo tanti giorni, riesco a passare la notte con l’AC e riesco a riposarmi. Torno ad Addis in aereo e provo ad organizzare la mia visita all’ospedale di Emergency a Khartoum. Alessandro, lo Hospital Manager, mi attende per la prossima settimana. Nessun problema per trovare un volo ma ottenere il visto per il Sudan è diventata cosa molto complicata, praticamente impossibile ad Addis. Rinuncio al Sudan e mi prenoto un volo notturno per Tunisi, via Il Cairo. Ad Addis si accumulano problemi tecnici ed organizzativi, si susseguono piccoli tentativi di truffa ed episodi spiacevoli. E’ giunta l’ora di tornare a casa. Qualche giorno tranquillo a Sidi Bou Said mi ritemprerà.

Biciclettata al lago

Maria mi mostra le biciclette a disposizione e scelgo una mountain bike, l’ideale per questi terreni, il sellino è già all’altezza giusta. Simon mi gonfia le gomme e la prova, tutto ok. Pedalo lungo il vialetto alberato della residenza della missione, supero il cancello ed imbocco la strada sterrata in direzione Sud lasciandomi il villaggio alle spalle. Nel corso del primo kilometro mi cade la catena cinque volte. Sono sotto il sole, le mani sono già nere e unte, decido di rientrare. Ritrovo Simon e gli dico che ho avuto problemi alla “chain”, catena mi risponde !  Si mette subito al lavoro e con una improbabile chiave mi sistema la ruota posteriore, speriamo bene. Riparto, di nuovo sotto il sole, ora fa molto caldo ma non desisto, pedalo. Lungo la strada incontro un paio di auto e di camion che al loro passaggio alzano una nuvola di terra rossa. Incontro anche un carro trainato da asini, persone solitarie che camminano sotto il sole magari con del carico. Sono solo cinque km di percorso ma ci impiego una mezzora. Incontro un piccolo villaggio costituito solo da capanne, poco oltre il lago. Lungo la riva una mandria di bovini pascola tra uccelli bianchissimi. Con le zampe in acqua vedo degli strani uccelli che, tanto per cambiare, non conosco. Simili ai fenicotteri ma stanno sulle due gambe, alti più di un metro, imponenti a terra ed enormi in volo, grandi ali nere ed un lungo becco. In acqua qualcuno si lava e fa il bucato, un ragazzo lava la bicicletta, un bambino arriva con un pesce appena pescato. Un gruppo di robusti giovanotti ha appena fatto il bagno e sta chiaccherando all’ombra di un albero, chi con un paio di pantaloncini e chi ancora nudo. Mi fermano per un saluto e le solite domande di rito: da dove vieni, come ti chiami. Tra le capanne del villaggio vedo un simbolo della Coca Cola, entro e trovo una specie di bar molto buio. Incuriositi arrivano bambini e donne, chiedo da bere o da mangiare ma non c’è nulla, fortunatamente ho con me ancora dell’acqua. Riprendo a pedalare, è quasi mezzogiorno ed il sole è molto forte. Mi fermo un paio di volte all’ombra, giusto per rinfrescarmi e bere. Rientro ad Abobo, ho appetito ed è quasi ora di pranzo.

 

Abobo e lo Health Center

Sono le 10 del mattino ed il fuoristrada della missione di Abobo è già alla scuola Don Bosco di Gambela. Saluto Brother Giancarlo e partiamo. Con me l’autista, un ragazzo molto utile in ospedale. Prima di lasciare la città ci fermiamo all’ospedale pubblico. Un viavai di persone, un mezzo di MSF. Imbocchiamo una nuova striscia d’asfalto che attraversa la savana. Dopo una decina di chilometri inizia lo sterrato ma riusciamo a tenere una buona velocità. Dopo circa un’ora arriviamo ad Abobo. La strada principale attraversa il villaggio che ha circa tremila abitanti, ai lati negozi e qualche bar, tutti molto “africani”. In fondo al villaggio a sinistra la chiesa e la missione cattolica, a destra l’ospedale, l’Abobo Health Center. Appena arriviamo ci aprono subito il cancello ed entriamo. Vengo accompagnato in ufficio dove incontro Maria, infermiera ed ostetrica, di Saragoza (Spagna) da tre anni ad Abobo. E’ alle prese con un PC che sta facendo le bizze ma interrompe la sua attività per salutarmi e darmi un sorridente benvenuto. Con un chiaro accento spagnolo si presenta e mi accompagna da Maria Teresa Reale di Sesto, fondatrice e direttrice dell’ospedale. Medico, laureata alla Statale di Milano, specializzata in malattie infettive al Sacco ed in malattie tropicali ad Anversa, Belgio. Capelli grigi, stetoscopio al collo, sta visitando i pazienti. Mi saluta in modo molto caloroso e capisco che la mia visita è cosa gradita. Mi viene presentato l’ospedale. La struttura iniziale e stata messa a disposizione dallo stato etiopico ma in seguito la missione, il grande lavoro e la passione di Teresa, gli aiuti delle parrocchie di Sesto, i contributi ricevuti dal Gruppo Sportivo Alpini, i Lions, ed altri ancora, hanno reso possibile l’ampliamento e la costruzione di una nuova ala. Ora, oltre agli ambulatori ed al pronto soccorso, ci sono 40 posti letto, una sala parto, un piccolo centro analisi ed un ecografo fuori servizio. Visito l’area dei degenti, mamme con bambini appena nati o in cura perchè malati o malnutriti, adulti malati o feriti. Un panorama di sofferenza profonda, di indigenza, al limite dell’umana comprensione per chi come me vive in un paese moderno ed organizzato. Solo il lavoro e la passione di Teresa e Maria, e di tutti i loro locali collaboratori, rendono possibile la speranza di vita di queste persone. Prendo alloggio in una semplice ma pulita camera della missione dove incontro anche due volontarie inglesi. Colazione, pranzo e cena si tengono nel grande soggiorno che ha anche delle poltrone ed una TV. Il giorno successivo riesco a documentare la straordinaria attività dell’ospedale. Ore 8,00, entro con Teresa e Maria, sul cancello un cartello vieta la introduzione di armi. Per prima cosa visita alla camera post parto. Durante la notte c’è stato un parto, l’addetta alla lavanderia ha dato alla luce un bel maschietto di 3,5 kg. Nelle ultime 24 ore ci sono state ben tre nascite. In un altro letto una mamma fa ascoltare della musica alla sua bimba nata prematura di 1,4 kg che però ha già raggiunto gli 1,7 kg. E’ avvolta in una coperta colorata ed in fianco c’è perfino un calorifero elettrico. A queste temperature ! Poi con Maria andiamo nella camera pediatrica dove sono ricoverati alcuni bambini malnutriti. Un paio vengono alimentati con sondini e siringhe. Maria ha per tutti grande attenzioni ed un sorriso. Nel cortile alcuni malati hanno steso dei teli e se ne stanno sdraiati, altri sono nei loro letti. Verso le dieci con una infermiera, le volontarie inglesi ed un paio comunicatori, vado verso un villaggio dove si terrà un incontro per l’igiene e la  prevenzione. Mezz’ora d’auto per percorre i 18 km tra la boscaglia e raggiungere il villaggio di Bedpul, un piccolo agglomerato di capanne in paglia a base circolare. Bambini sporchi praticamente nudi, donne con abiti molto colorati, tutti con molte collanine al collo e sulla vita. Alcune donne sono sedute per terra e mentre ci aspettano chiaccherano, bevono una bevanda leggermente alcoolica ricavata dalla fermentazione del mais, fumano una lunga pipa che termina con una corteccia di zucca esiccata. All’ombra di una grande pianta si forma una platea di donne e bambini, arriva anche qualche uomo, gli altri sono fuori a lavorare. Il comunicatore incomincia a spiegare le primarie norme igieniche. Qui praticamente tutti hanno la malaria, la TBC, infezioni intestinali e per prima cosa si cerca di evitare lo scambio di tazze (ricavate dalle zucche o da scatole d’alluminio) e delle pipe. Le donne fanno presente che queste sono le loro abitudini a cui non possono rinunciare. L’attenzione da parte di adulti e bambini è alta. Al termine delle comunicazioni le donne fanno presente i loro problemi ai quali infermiera e comunicatore cercano di dare risposta. Inizia poi la distribuzione dei disinfettanti intestinali. Ai bambini fino ai due anni si somministra sotto forma di sciroppo dolce ma nonostante ciò alcuni piangono e non vogliono berlo. A tutti una pastiglia bianca ed un sorso d’acqua pulita. Bambini e adulti accettano la medicina con piacere. Segue la distribuzione di bianche e profumate saponette, donne e bambine apprezzano la cosa e passano minuti a sentire il profumo portandosi la saponetta sotto il naso e sorridendo contente. Terminato l’incontro ci si scambiano saluti molto cordiali e sorrisi molto amichevoli. Di nuovo sul fuoristrada, percorriamo circa cinque kilometri ed arriviamo presso una scuola frequentata dai bambini di una vasta area che copre diversi villaggi. La costruzione è in legno, canne e paglia, la suddivisione in classi è virtuale. Quattro lavagne appese e quattro insegnanti gestiscono quattro classi con alunni di età diverse. I più piccoli imparano l’alfabeto ripetendo le lettere con una cantilena, altri scrivono sulla lavagna, la classe dei più grandi invece sta toccando il tema giustizia, molti prendono appunti sui loro quaderni. Facciamo il giro delle classi partendo dai più piccoli, ad ogni studente, ma anche agli insegnanti, viene dato il disifettante intestinale con un bicchiere d’acqua. Si rientra in ospedale e ritrovo i sorrisi di Teresa e Maria. Una breve pausa pranzo e di nuovo al lavoro, io invece vado ad esplorare cosa succede nel villaggio. In fianco alla missione c’è una pompa a mano per l’acqua, donne, ragazze e bambine si alternano alla pompa. L’acqua viene immessa in taniche di plastica gialla e poi via col carico sulla testa verso casa. Passeggiando la gente mi sorride, mi saluta con un “salam”. Dei bambini di due e tre anni giocano con un mucchio di terra, appena mi vedono mi vengono incontro e mi tendono la mano per salutarmi. Per rendere tutto più agevole mi abbasso alla loro altezza e dopo avermi stretto la mano il primo con grande coraggio mi tocca i capelli. E’ per loro una grande novità, capelli lisci e bianchi. E dopo aver esplorato la capigliatura uno prova a toccare la barba. E’ fatta, tutti con le mani tra barba. La infinita curiosità dei bambini. Ad Abobo la novità di oggi si chiama zucchero. E’ arrivato un camion che ha consegnato sacchi di zucchero. Prima arriva l’auto dell’ospedale che se ne porta via un sacco per i degenti e per il personale, più tardi inizia la distribuzione. Si crea una fila molto paziente ed educata e tutti si comprano un kilo di zucchero pesato su una bilancia manuale. Arriva sera e chiedo a Teresa: dimmi cosa ti serve, cosa ti manca, dammi una idea sulla quale poter lavorare. La risposta non si fa attendere: un nuovo ecografo ! Serve per visite ginecologiche, epatiche ed all’apparato urinario. Bene, appena torno in Italia partirà una raccolta fondi. Entro giugno l’Abobo Health Center avrà un ecografo. Promesso ! E con questo obbiettivo il gorno seguente lascio Abobo con l’intenzione di tornarci presto per fotografare il nuovo ecografo.

Gambela

Volevo arrivare a Gambela in bus (ci vogliono due giorni di viaggio per coprire i quasi 800 km) ma ho preferito prendere un volo. Sono all’inizio del mio settimo mese di viaggio e le energie incominciano a mancare. Circa un’ora di volo e si arriva nell’estremo Ovest del paese, molto vicino al confine col Sud Sudan da dove arrivano centinaia di migliaia di profughi. Sulla pista dell’aeroporto un solo aereo: un cargo del World Food Program. I bagagli vengono consegnati direttamente dai carrelli, esco e non vedo taxi o altri mezzi, ci sono solo i fuoristrada bianchi dell’ONU e del UNHCR. All’ombra di una pianta vedo un mini-bus ormai pieno, è l’unico mezzo che arriva in città. No problem. Lungo la strada veniamo fermati da una mandria di bovini dalle lunghe corna. Arrivo in città e trovo una camera dove soggiornano anche i funzionari ONU e delle diverse organizzazioni umanitarie. Poco fuori dalla città c’è un enorme campo profughi dove oltre 250.000 persone vivono in condizioni disumane. Vorrei andare a visitarlo ma è praticamente impossibile. Esco a fare due passi e vado verso il fiume attraversato da un lungo ponte. Sui due lati centinaia di persone si stanno lavando e fanno il bucato. In acqua ci sono anche auto, bajaj (i tuk tuk locali) camion e furgoni. L’olio e lo sporco dei mezzi si mescola con l’acqua fluviale, poco a valle altre persone si stanno lavando. La mattina seguente voglio andarmene un pò in giro ad esplorare l’ambiente. Arrivo in prossimità di una chiesa di culto ortodosso etiopico. Rotonda, come usa in Etiopia, colorata con i colori nazionali: verde, giallo e rosso. Un altoparlante trasmette la funzione, i fedeli sono tutti all’esterno, tutti molto concentrati, pregano, rispondono al prete, si inginocchiano fino a toccare terra col capo come fanno i musulmani. L’interno è praticamente vuoto, giro attorno alla chiesa e attraverso un’altra porta vedo cinque preti in abiti rossi tradizionali ed un aiutante che regge un ombrello, anch’esso rosso. Sto per scattare una foto, l’immagine è molto interessante, ma un prete mi vede e molto scocciato mi fa un chiaro cenno con la mano chiedendomi di allontanarmi. Rispetto sempre queste richieste e lascio la chiesa. Arrivo in centro dove c’è una rotonda, tutto attorno un traffico di bajaj, auto e carri trainati da asini. Vado verso il mercato dove frutta e verdura e mercanzie di ogni tipo sono stese per terra. Dopo oltre un’ora di passeggiata debbo cedere, il caldo è eccessivo, all’ombra ci sono 42 gradi e al sole ? Rientro in albergo dove mi mangio una fondina di spaghetti al pomodoro, non male. Nel secondo pomeriggio, quando il sole è meno forte, vado alla scuola Don Bosco. Incontro il direttore, brother Giancarlo, di Brescia. Ha poco tempo da dedicarmi perchè è in riunione ma mi conferma che domani ci sarà l’auto per Abobo. Nel bar del cortile incontro due maestri, uno insegna matematica, l’altro l’amarico, la lingua locale. Dopo qualche minuto si lasciano andare, si lamentano che il loro stipendio è troppo basso: 2.500 birr al mese che corrispondono a circa 100 €. Poco più di quanto spendo io in albergo, pasti inclusi, in due giorni. Uno dei due, sposato, mi chiede di fargli da sponsor e di aiutarlo a venire in Italia. Gli spiego quanto è difficile entrare nel nostro paese e sopravvivere da immigrati, forse è meglio rimanere a Gambela ed insegnare.

Debre Libanos, Jemma Gorges, Jod Abyssinia.

E’ domenica e con un blogger ungherese condivido una escursione verso Nord. Usciamo da Addis e subito tutto cambia. Attraversiamo territori collinosi, la stagione delle piogge è lontana e l’erba è giallastra. Si incontrano le prime capanne a base circolare, tetto in paglia. Le case invece hanno uno scheletro in legno (eucalipto) ricoperto da palta esiccata, molto resistente alla pioggia. Lungo la strada incontriamo anche molti asini e bovini. La prima cosa che noto è che qui le donne indossano abiti tradizionali, molto colorati e con un velo sulle spalle e la testa, tutte indossano la gonna mentre ad Addis si veste molto all’occidentale e la maggioranza delle donne porta i pantaloni. Dopo circa due ore d’auto arriviamo a Debre Libanos dove si trova un famoso monastero. Avvicinandoci al centro religioso, lungo la strada, si incontrano molti pellegrini. Arrivati a destinazione la guida ci accompagna ad acquistare il biglietto d’ingresso. Sul muro un cartello fissa le regole per l’ingresso: vietato alle donne mestruate ed a uomini e donne che hanno fatto sesso nelle ultime 48 ore. Mai visto niente del genere in vita mia !!! Il tempio ha base rettangolare ed una grande cupola. Accompagnati da una guida entriamo nella chiesa, due file di panche dedicate agli uomini mentre le donne possono stare in una piccola area a loro riservata e separata dalla navata principale con dei grandi teloni colorati. Possono avvicinarsi all’altare solo per comunicarsi. Sopra l’altare è raffigurata la Trinità ed in fianco molte icone raffiguranti i santi, a sinistra una semplice Ultima Cena dove sul tavolo vengono ritratti solo un calice ed il pane. Anche qui la poltrona dedicata all’imperatore e vetrate che raccontano il Nuovo ed il Vecchio Testamento. Un’altra guida ci accompagna alla grotta. Si sale per un ripido sentiero tutto pietre e si arriva al luogo sacro dove il santo ha pregato per oltre 29 anni. Si tolgono le scarpe, si passa attraverso una porta in ferro e si entra in una grotta molto umida. A sinistra un monaco benedice i pellegrini con l’acqua sacra che gocciola dalla roccia. Per terra catini in plastica di diversi colori raccolgono l’acqua che sarà poi usata per la benedizione dei fedeli. Un luogo molto buio ed umido ma carico di sacralità. Riprendiamo l’auto ed andiamo sempre in direzione Nord fino a raggiungere il punto panoramico sulle Jemma Gorges, una lunga e profonda vallata dove sul fondo del canyon possiamo vedere il Nilo Blu. Sotto di noi alcuni villaggi  dove i tetti in lamiera si intrecciano con i tetti in paglia delle capanne rotonde. Sulla strada vedo passare vecchi pullman che arrancano sulla salita, camion stracarichi, poche auto e molti asini. Dopo uno spuntino torniamo in direzione Addis. Di tanto in tanto incontriamo gruppi di scimmie. Vengo invitato dall’autista a raggiungere l’ungherese in un ristorante tradizionale per cena. Rientrato ad Addis in taxi vado al Jod Abyssinia Restaurant e trovo l’ungherese con Mekides, la ragazza dell’agenzia che mi ha proposto l’escursione. Ci viene servito un grande vassoio rotondo con ingera, il tradizionale pane etiopico, base dell’alimentazione del paese. Si tratta di un “pane” molto piatto con tante piccole bolle d’aria, risultato di una lunga fermentazione. Lo si ricava da un cereale coltivato ovunque di nome teff. Importanti sono la freschezza e la procedura che se non viene eseguita in modo corretto dà una ingera molto acida, immangiabile. Questa servita al Jody Abyssinia è molto buona. Sopra la ingera troviamo diversi tipi di carne in umido, verdure (carote, patate, fagiolini), un pò d’uovo e del formaggio molto fresco. Tutto viene regolarmente mangiato con le mani secondo l’uso etiope. Nel frattempo sul palco cinque musicisti suonano musiche regionali mentre un gruppo di ballerini in costume esegue danze tradizionali. Tre cantanti si alternano al microfono. Al termine della cena un cameriere arriva con un vassoio ed una brocca d’alluminio dalla quale fa scendere dell’acqua calda che serve a sciacquarsi le mani. Viene poi servito un liquore con miele in una simpatica bottiglietta e poi la tradizione etiope del caffè servito con zucchero, pop corn e dell’incenso fumante che mi dà la sensazione di essere in chiesa. La cena non era presente nel mio pacchetto giornaliero ma mi è stata comunque offerta dall’agenzia. Grazie, ho molto apprezzato l’iniziativa.

Addis Ababa

Sarà stato il cielo grigio di questi ultimi giorni ma trovo Addis Ababa una città grigia e di scarso interesse. Non esiste un vero e proprio centro dove poter passeggiare e godere della vita sociale. Le uniche due cose che ho trovato di un certo interesse sono il National Museum e la Trinity Cathedral. Il museo, sito in una triste costruzione, è davvero mal tenuto e mal conservato. A piano terra si trovano oggetti storici del secolo scorso risalenti all´epoca imperiale di Haile Selassie mentre nel sotterraneo c’è una interessante sezione dedicata al periodo paleontologico. Viene descritta l´evoluzione della fauna ma soprattutto quella dell´uomo. In due teche sono conservati i resti degli scheletri delle nostre antenate Ardi, risalente a circa 4,4 milioni d´anni fa, e Lucy di circa 3,2 milioni d´anni fa. Lucy è stata scoperta nel 1974 nella regione dell´Afar (l´Est del paese), alta poco più di un metro, gia´ bipede ma ancora abituata ad arrampicarsi con facilità sugli alberi. Un reperto cosi interessante meriterebbe certamente più attenzione. Più oltre si trovano alcuni oggetti che mostrano l´evoluzione degli utensili ricavati soprattutto dalle pietre. Non lontano dal museo si trova la Trinity Cathedral, il luogo più sacro della città. Un edificio grigio con sette arcate sul fronte ed un campanile. A pianta rettangolare, normalmente le chiese in Etiopia sono a pianta circolare, ha una lunga navata centrale con due file di panche, a destra siedono le donne mentre a sinistra gli uomini. Sopra l’altare tre bandiere nazionali e la rappresentazione della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Di fronte all’altare e separate dal resto dei fedeli le due poltrone imperiali di Haile Selassie e moglie. In una cappella a sinistra dell’altare le due imponenti tombe dell’imperatore e consorte. Sui due lati interessanti vetrate rappresentano la Bibbia. In Etiopia vige una pluralità di fedi, la più praticata è il cristianesimo ortodosso etiopico di cui l’Etiopia è una delle due patrie spirituali assieme alla Giamaica (movimento Rastafari e musica Reggae). Nonostante le missioni e le scuole di Don Bosco i cattolici sono pochissimi mentre la religione musulmana ha un buon seguito.

Dal Sud America all’Africa

Dal Sud America all’Africa. Il passaggio dal Brasile all’Ethiopia è un grosso balzo: 12 ore di volo da Sao Paolo ad Addis Ababa, 6 fusi orari, si passa da un clima molto caldo e umido ad una temperatura mite e molto fresca (Addis Ababa è posta su un altopiano a 2.400 d’altezza), la qualità delle infrastrutture crolla, la città è molto degradata. Nell’insieme delle prime impressioni non è scattato il “mal d’Africa” ma, siccome mi conosco, prima o poi qualcosa succederà.

Rio de Janeiro

E’ Pasqua e mi sembra la giornata più adatta per visitare il Corcovado, la alta e ripida collina che ospita la famosa statua del Cristo, simbolo della città. Salgo in treno, il Trem do Corcovado, che grazie ad una cremagliera porta i visitatori poco sotto la statua. Scale mobili e qualche rampa di scale ed eccoci sulla vetta della collina di roccia nera. Ovviamente oggi molti sono i visitatori ma con un pò di pazienza si riesce a godere il meraviglioso panorama ed a scattare qualche foto. Da qui si vedono le famose spiagge di Copacabana ed Ipanema, la laguna e la costa frastagliata della baia che caratterizza questa città. Di fronte l’altra icona della citta: il Pan di Zucchero. Un panorama a 360 gradi che emoziona fortemente. La statua è stata inaugurata nel 1931 ed è il più grande esempio di art dèco nel mondo. All’interno una piccola cappella ed un altare con le bandiere del Brasile e della Città del Vaticano. Scendo col treno ed a 50 metri dalla piccola stazione trovo il MIAN, il museo della pittura naif. Sono solo tre sale ma lo trovo molto interessante, quadri piccoli e grandi con forti colori che ritraggono i panorami della città, la flora e la fauna brasiliana. Nella prima sala una serie di pannelli raccontano la storia del paese dall’arrivo dei primi naviganti fino alle storie piu recenti del secolo scorso: la democrazia non compiuta, il suicidio di un mancato presidente, lo sfruttamento del petrolio. Concludo la giornata con una passeggiata sulla Praia do Flamengo, una caipiriña in un chiosco sulla spiaggia ed una simpatica conversazione con altri avventori, abitanti del quartiere. Il giorno successivo non può mancare la visita al Pan di Zucchero. Si sale grazie ad una moderna funivia, sul Morro da Urca si cambia cabina e con un tratto più breve si arriva fin sulla vetta. Anche da qui un panorama splendido sulla città ed in fondo si vede il Corcovado col Cristo a braccia aperte. Dopo aver mangiato un buon polipo grigliato mi porto nel quartiere Andarai’ per cercare un Clube do Samba che mi è stato consigliato, il Renascenca . Dopo qualche difficile ricerca arrivo davanti ad un muro blu dove attraverso una piccola fenditura si paga l’ingresso. Un vasto cortile, molti murales colorati e sotto una tettoia, seduti attorno a un tavolo, una decina di musicisti suonano e cantano la samba. Tutto attorno persone che ballano e che si fanno trascinare dal ritmo infinito, tavolini dove si chiacchera e si bevono fiumi di birra. La mattina seguente scelgo un tour organizzato di una favela, meglio non andarci da solo. Con altri cinque stranieri ed una guida locale vado alla Rocinha, la più grande favela della città con circa 200.000 abitanti. Una passeggiata tra le vie ripide e strette, scale e gradini, ed arriviamo su un terrazzino dal quale si ha la vista completa della favela. Mura in mattoni forati senza intonaco, costruzioni mai finite, ammassate l’una sull’altra, terrazzini con la biancheria stesa e serbatoi blu dell’acqua. Qui fino a cinque anni fa tutto era controllato dalle bande che oltre a spacciare droga assicuravano la sicurezza. Un piccolo sgarro ed eri morto. Qui la polizia non poteva entrare, lo stato non esisteva fino a quando è stata dichiarata guerra alla malavita. Morti e feriti tutti i giorni ma ora il quartiere è un posto sicuro. Ed è anche un luogo sicuro per i ragazzi “bene” di Ipanema (la spiaggia piu “in” della città) per l’acquisto di eroina e crack. La municipalità ha anche costruito centri sociali, uno dedicato al grande Ayrton Senna, vedo anche una piscina dove si sta insegnando nuoto. Il giorno successivo, l’ultimo prima di partire, non mi perdo Santa Teresa, un quartiere antico ora molto frequentato da artisti e da turisti. Il quartiere è in collina, si sale lungo strade strette, case un pò malandate si alternano a villette eleganti con giardino. Molte case hanno piacevoli colori pastello, molti murales, persino alcuni lampioni sono disegnati e colorati. Passeggio lungo la strada principale ed entro in un centro culturale dove visito una piccola mostra di quadri a carboncino e guardo indisturbato una strana prova di teatro. Alcuni attori in tuta nera hanno dei personaggi immaginari sulle proprie gambe e li muovono come fossero dei burattini. Naturalmente aggiungono anche la voce. Prima di lasciare il quartiere entro in un locale molto tipico, il Bar do Mineiro, nel quartiere c’è una vasta scelta. Piastrelle bianche alle pareti, quadri e oggetti di ogni tipo, un bancone con vecchie bottiglie e la riproduzione in legno del vecchio tram. Mi faccio servire una fejioada, l’ultima prima di partire, una sorta di arrivederci a Rio ed al Brasile. Il piatto non si sposa molto col clima, oggi 33 gradi ed una altissima umidità, ma mi piacciono gli usi e costumi locali. Mi viene servita una pentola in terracotta che contiene fagioli neri, salsicce e pezzi di carne, tutto con un bel sugo molto denso. Tutto ciò si accompagna con riso bianco, una verdura saltata in padella, birra ed una scodella di arancia già tagliata a pezzi. Sazio mi porto verso la fermata dell’antico tram. Ora viene tenuto in funzione come oggetto storico ed è gratuito, ma vedo che viene usato anche da qualche abitante del quartiere. La carrozza del tram è in legno giallo e blu, tutto aperto (senza vetri alle finestre), panchine in legno. Non esistono porte ma una stanga in legno che viene alzata ed abbassata ad ogni fermata dal manovratore e dall’aiutante che ha anche il compito di annunciare il nome della fermata. Venti minuti di attesa ed ecco che sferragliando vedo arrivare il tram (una sola carrozza) dalla salita. Si ferma, scende il manovratore, muove manualmente lo scambio con un apposito bastone, risale, riparte e raggiunge il capolinea. Siamo in largo dos Guimaraes. Scendono i passeggeri ed il manovratore inverte manualmente la posizione della pertegheta (in dialetto milanese) per preparare il tram in direzione della discesa. Salgo con altri passeggeri e si parte. Il tram scende lentamente con lunghe frenate, si percorre la strada attraverso case antiche ed una prima sosta, poi si percorre il ponte di Lada, un lungo viadotto sopra la città, per poi arrivare al capolinea del centro dove c’è una stazione con tanti scambi e tram in attesa di ripartire. Sono in pieno centro direzionale, passo di fronte alla sede della Petrobras (l’azienda nazionale dei petroli simile alla nostra ENI), il teatro nazionale, palazzi antichi e grattacieli. Mi fanno effetto i manager ed i funzionari vestiti con abiti scuri e cravatte, sono abituato a vedere le persone sempre molto sportive e casual. Il Brasile si chiude così, con Santa Teresa, il vecchio tram, l’ultima fejioada. Tra qualche ora tutto cambierà, una nuova esperienza sta arrivando.