Il 29 Febbraio

Il 29 febbraio cade ogni quattro anni.

Ricordo quello di otto anni fa.

Il giorno prima avevo visto la morte negli occhi con tanta tristezza e profondo dolore.

Ma quella mattina, uscendo da casa e svoltando l’angolo verso viale Casiraghi, mi sono sentito piu’ leggero.

In fin dei conti lei aveva finito di soffrire.

C’e’ chi crede che dopo la morte ci ritroveremo tutti al cospetto di Dio e ritroveremo i nostri cari.

C’e’ chi crede nella reincarnazione.

C’e’ chi crede che la energia dei nostri cari rimanga con noi.

Io credo che dopo la morte non ci sia piu’ nulla, rimangono i ricordi.

E finche’ ricordiamo una persona che ci e’ stata cara, lei e’ viva.

Luisa e’ tra noi.

La Patagonia Cilena – Puerto Natales

La Ultima Esperanza, cosi’ viene chiamata Puerto Natales e l’area circostante. Questa fu una delle ultime zone abitate dai coloni europei, l’ultima speranza appunto. Circa tre ore di bus da Punta Arenas, un panorama piatto coi grandi cieli patagonici ma prima dell’arrivo incominciano a vedersi le montagne all’orizzonte. Bellissimo il panorama sullo stretto, in acqua molti cigni bianchi dal collo nero. Per prima cosa un “full day”, come viene chiamato qui’, che significa una escursione al Parco delle Torri del Paine. Un’ora di bus e si arriva ad un incrocio dove ci sono la stazione dei Carabineros de Chile in bianco e verde, due o tre case, un bar ed un negozio. Si lascia l’asfalto e si prosegue lungo uno sterrato di terra bianca che si alza al passaggio di ogni veicolo. Si attraversa la pampa e le montagne si avvicinano, si incontrano molti guanocos (animali simili ai lama, tipici della Patagonia) e dietro ad una collina, tutto ad un tratto, appaiono le stupende Torri del Paine e la Montagna Grande, piu’ sotto il lago di Sarmiento dove tutto si riflette. Si arriva alla cascata del Paine con arcobaleno incluso. Oggi il cielo e’ azzurro e completamnete nitido. Natalia, la accompagnatrice dell’escursione, ci informa che oggi e’ la piu’ bella giornata di tutto il mese di febbraio ! Il “lucky man” viene riconfermato. Proseguiamo per un’altra ora tra panorami splendidi e laghetti dalle acque cristalline. Arriviamo presso una seconda cascata, sullo sfondo la Montagna Grande. Ancora strada bianca e si arriva al lago Pehoe’ dove c’e’ un grande albergo costruito su un’isoletta in un luogo incantevole. Sosta in una estancia, la sala da pranzo ha ampie vetrate con vista sulle montagne. Viene servito un pollo con verdure ed un vino rosso, un caffe’e si riparte. Sosta imprevista, la ruota anteriore destra e’ bucata, l’autista nel giro di venti minuti la sostituisce. Il cielo e’ ancora azzurro ma arrivano le prime nuvole bianche che completano i maestosi panorami. Arriviamo al Grey Lake. Camminando si attraversa il bosco e poi appare una lunga striscia di sabbia e ghiaia di origine morenica che divide il lago. A destra un colore grigio rotto dal bianco di un piccolo iceberg. A sinistra si vede tutto il lago in controluce e sullo sfondo il ghiacciaio che scende dalla montagna fino a lambire le acque del lago. E’ gia’ pomeriggio avanzato ed il vento e’ gelido. Ultima sosta alla Cueva del Milodon, un luogo con una storia millenaria. Una grande grotta formata all’epoca glaciale e successivamente scavata dal mare, in seguito e’ diventata luogo dove viveva il milodon, un animale da due tonnellate scomparso circa 10.000 anni fa. Allora lo Stretto di Magellano e la Terra del Fuoco non esistevano, tutto era unito al continente. La sera si rientra ed al ristorante Ultima Esperanza mangio un’ottima zuppa di pesce. La mattina successiva parto di buonora per la “navigazione”. In pullman si arriva al punto di imbarco. Ci attende la “21 de Mayo III”, una imbarcazione che accoglie un centinaio di passeggeri. Ritrovo una coppia di cileni in vacanza che praticamente mi adotta. Alla partenza il cielo e’ ancora un po’ cupo, i forti colori si riflettono in acqua, qualche squarcio di azzurro non manca. Durante la navigazione il vento e’ forte e gelido, quando si esce per ammirare il panorama e’ necessario coprirsi bene. Dopo una ora e mezza raggiungiamo una colonia di cormorani che ha colorato di bianco la roccia della costa. L’acqua del lago si colora di verde ed arriviamo di fronte a due bellissime cascate che gettano l’acqua gelida direttamente nel lago. Stiamo navigando lungo il fiordo Ultima Esperanza, profondo circa 80 km. Arriviamo di fronte al ghiacciaio di Balmaceda, qui si nota con molta evidenza il processo di riduzione dei ghiacciai. Negli ultimi 40 anni il ghiacciaio si e’ ridotto di una cinquantina di metri. Ora il cielo e’ molto grigio, il vento e’ sempre molto freddo. Arriviamo in prossimita’ del Glaciar Serrano. Si sbarca, venti minuti di cammino lungo il lago ove galleggiano blocchi di ghiaccio e si arriva di fronte al ghiacciaio. Un piccolo Perito Moreno, questo ghiacciaio arriva al mare e di tanto in tanto delle pareti ghiacciate si staccano con un grande boato. Meraviglioso. Il cielo coperto a volte si apre, raggi di sole colpiscono il ghiacciaio ed il lago cambiando notevolmente i colori. Ad un certo punto il lago diventa di colore grigio, straordinario. Un’ora di navigazione mentre ci viene offerto un whisky con ghiaccio ! Si, prima di pranzo, e sbarchiamo alla Estancia Perales. Piove acqua gelida ma entriamo nella sala ristorante dove ci viene servita una zuppa calda ed un asado di agnello, salsicce e pollo. Un buon Carmenere completa il tutto. Si riprende la navigazione verso Puerto Natales mentre il vento cessa ed il cielo si apre. Ceno alla Mesita Grande, una pizzeria con forno a legna dove si servono anche pasta e gnocchi. Qui’ sono stupito nel vedere come vengono mangiate le tagliatelle, chi col cucchiaio dopo averle avvolte sulla forchetta, chi tagliandole a pezzetti da 1 / 2 centimetri. Un insulto alla nostra tradizione ma va apprezzato questo gusto di gradire le nostre specialita’. Io scelgo tagliatelle alla bolognese, la pasta e’ fresca e ben cotta ma il ragu’ e’ completamente senza carattere.

La Patagonia Cilena – Punta Arenas

Occorrono quasi tre ore di volo per raggiungere la Patagonia Cilena da Santiago, circa 2.200 km di percorso. Per un paio d’ore si sorvolano le Ande poi il panorama diventa piu’ piatto e prima dell’atterraggio appare lo Stretto di Magellano. Punta Arenas e’ la “capitale” della regione. In centro la tipica piazza coloniale con giardini ed il monumento dedicato a Magellano che per primo arrivo’ qui’ dove le acque dei due oceani, il Pacifico e l’Atlantico, si fondono e si scontrano. La prima sensazione che provo e’ un forte cambio di clima. Sono passato dai 28 / 30 gradi di Santiago ai 13 patagonici, un vento freddo soffia tra le strade della citta’ a pianta quadrata. Per prima cosa, tra le bancarelle del mercatino artigianale, mi compro un caldo paraorecchie e dalla valigia escono giacca a vento e maglione, le scarpe sostituiscono i sandali. Passeggio fino allo stretto dove lungo i moli vedo centinaia di cormorani bianchi e neri. Tutte le case sono ad un piano, alcune sono antiche, molte colorate con colori fantasiosi. Specialmete nel rione che si affaccia al mare molte case hanno murales che ritraggono la vita locale, particolare e’ la casa del veterinario dove il murale ritrae un medico con un cane sulla porta di casa. Avverto un feeling da “fine del mondo”, parole usate anche da Papa Francesco la sera della sua elezione. Anche il cielo e’ cambiato, le nubi qui’ sono piu’ scure e minacciose, qualche spruzzata d’acqua non e’ mai una sorpresa. Il cimitero municipale e’ il luogo imperdibile della citta’. Un cimitero monumentale con cappelle artistiche e statue, strane piante verdissime, rotonde, con i rami che arrivano sino a terra, anche loro molto artistiche. Rientrando in citta’ mi fermo al Museo Regional Salesiano dove, oltre ai ritratti di Don Bosco, sono esposti animali imbalsamati, ricostruzioni di ambienti antartici, cimeli e foto dell’epoca della colonizzazione. Una sala e’ dedicata alla cultura ed alla storia pre-colombiana. I ristoranti preferiti di Punta Arenas sono il Chumanguito per il pranzo, all’interno murales e , con mia grande sorpresa, vedo una riproduzione del “Quarto Stato”, quadro tipicamente milanese. Scambio due chiacchere col titolare che a fine pranzo mi offre un Fernet Branca prodotto in Argentina ma con l’etichetta esattamente uguale a quella che conosciamo da sempre. Qui’ provo una buona empanada ripiena di granchio e gamberi mentre ascolto i Beatles e Frank Sinatra. Il giorno successivo costolette d’agnello accompagnate da un Cabernet Souvignon della Concha y Toro, l’azienda visitata qualche giorno prima nella valle del Maupio, e particolare e’  l’emozione di ascoltare Fabrizio De Andre’, Lucio Battisti ed Eros Ramazzotti a queste latitudini. Per cena invece opto per il ristorante Okusa sito in una casa antica, all’angolo di due strade. L’interno molto caldo con pareti di color rosso cupo, tende bianche ed a terra un antico assito. Qui’ scelgo un cosciotto d’agnello al forno, molto tenero, e la sera successiva una buonissima zuppa di pesce.

Santiago ed il golpe del ’73

Il primo pensiero che mi suscita Santiago e’ il ricordo del golpe. Quel 11 settembre del 1973 ero al mio primo impego alla Ercole Marelli di Sesto San Giovanni. Giovane tecnico in camice nero tra gli operai dell’attrezzeria in tuta blu. Mi fa un cenno il delegato di reparto del CdF, lo raggiungo e mi informa dell’accaduto. Sciopero immediato “in soliderieta’ col popolo cileno”. Sono passati piu’ di quaranta anni ed ora il Cile e’ una democrazia, un paese moderno e Santiago e’ una citta’ attiva e moderna. I segni del golpe e del passato regime sembrano svaniti ma qualche piccolo segno puo’ essere ancora colto. La mia visita alla citta’ parte proprio da li’. Per prima cosa visita alla Chascona, la casa in citta’ di Pablo Neruda, Premio Nobel per la letteratura e “padre” culturale del Paese. La casa si trova nel “Barrio Bellavista”, e’ domenica ed i ristoranti del “Patio” sono molto frequentati. Per arrivare alla Chascona si percorre una stradina che sale sulla collina, sui muri alcuni murales. La visita della casa inizia dal bar e dalla sala da pranzo. Il bar, dove venivano accolti gli ospiti, ha un piccolo bancone in legno. Sulla destra alcune bottiglie d’epoca, non posso fare a meno di notare una bottiglia di Bitter Campari made in Sesto. La sala da pranzo Neruda l’ha voluta simile all’interno di una nave, la tavola e’ imbandita con piatti e bicchieri colorati. Attraverso una porta in legno si accede in un piccolo locale dove grazie ad una scala a chiocciola si sale al piano superiore. Si arriva alla camera da letto dove risiedeva la sua amante segreta diventata in seguito la compagna per il resto della sua vita. Passando attraverso un giardino con pergolato si accede ad un altro bar, piu’ moderno, costruito in un secondo tempo. Poco oltre la biblioteca, lo scrittoio ed una sala di lettura. Qui’ sono esposte le foto della cerimonia di Stoccolma, i diplomi, le medaglie. Tutte le pareti della casa sono ricoperte da quadri e antiche fotografie. La casa e’ stata abitata dalla compagna di Neruda fino alla sua morte ed ora e’ un museo, e’ stata ricostruita con cura in quanto nei giorni successivi il golpe e’ stata completamente vandalizzata e volutamente inondata d’acqua. Mi porto in centro ed arrivo al Palacio de la Moneda. Rimango quasi deluso nel vedere una costruzione grigia di soli due piani. Di fronte al palazzo una piazza con giardino ed una statua di Salvador Alliende che riporta la frase detta prima del suicidio: ho fiducia nel Cile e nel suo destino. La facciata principale ha il portone d’ingresso e due guardie, al primo piano un balcone. Qui’ sono state scattate le foto del palazzo colpito dalle cannonate golpiste ma anche quelle piu’ festose seguenti la vittoria della Unidad Popular. Sul lato opposto una grande piazza con aiole, al di sotto e’ stato costruito un centro culturale. Scendendo le scale si apre un grande salone sul quale si affacciano negozi e centri di lavoro. Per il decimo anniversario del centro e’ stata esposta una Vergine di Botticelli e nei due saloni una interessante mostra fotografica che illustra la vita dei cileni. Le sale cinematografiche sono attualmente impegnate da un festival di cinema cileno. Opto per una interessante pellicola girata nel 2008 che mostra la famiglia di Allende. Oltre alle immagini di repertorio in b/n (l’assalto alla Moneda e altri momenti della vita pubblica e privata del presidente chiamato amichevolmente El Chico) si vede la moglie ormai novantaduenne, figlie e nipoti che sorridendo si raccontano la storia di famiglia. Terzo luogo di “pellegrinaggio” e’ lo Estadio Nacional che fu luogo di detenzione e di tortura. Qui’ i golpisti ruppero le dita a Victor Jara per impedidirgli di suonare la chitarra, qualche giorno dopo venne ucciso. Come non ricordare “Te recuerdo Amanda” e, fatto piu’ personale, “Duerme, duerme negrito” la ninna nanna preferita da mia figlia Silvia. Lo stadio e’ una grande struttura in cemento di nessun interesse, dei fatti del ’73 rimane solo una lapide con incisa una pianta che mostra i luoghi di tortura e di detenzione. Il Cile pero’ e’ anche terra di buon vino. A circa 45 km dal centro si trova la Valle del Maipo. Visito la cantina Concha y Toro, la piu’ grande del paese. Un grande palazzo padronale con giardino e laghetto, poi si apre una vasta pianura tutta ricoperta di vigneti. Le tipologie di vitigni, mi dicono, sono ben 23 tra uva bianca e nera. Il sole e’ molto forte e la temperarura e’ alta. Arrivato in prossimita’ delle cantine degusto volentieri un Sauvignon Blanc bello fresco, fruttato e di corpo. La prima cantina e’ priva di interesse, temperatura ed umidita’ sono controllate. Scendendo 4 metri sotto il suolo la visita diventa piu’ interessante. Pareti e soffitti ad arco in mattone, botti in legno di produzione francese ed americana, una cantina con le bottiglie da collezione di tutte le annate. Risaliti in superfice si degustano i rossi: un Carmenere del 2013 da 13,5 gradi ed un Cabernet Sauvignon del 2014 da 14 gradi molto strutturato. Con questo caldo non riesco neanche a finirli, si rientra in citta’ costeggiando il fiume Maipo. La sera due passi nel Barrio Lastarria, case antiche, bar e ristoranti, lettori di tarocchi e venditori di bigiotteria. Una specie di Brera sudamericana.

Ah Sud America

La traversata dell’oceano Pacifico si e’ conclusa ! 5 voli per un totale di circa 21 ore di volo. Un cambio di data e 9 ore di fuso.

Ah Sud America, Sud America, Sud America, canta Paolo Conte. Questa volta il Sud America inizia a Santiago de Chile.

Rapa Nui

Rapa Nui, l’Isola di Pasqua, è considerato il luogo più remoto al mondo. Da Tahiti cinque ore abbondanti di volo, cinque fusi orari, 4.250 km, e la costa del Cile dista 3.700 km. L’isola ha la forma di un triangolo, in corrispondenza di ogni angolo c’e´ un vulcano. I vulcani, ora non piu’ attivi, hanno disegnato l’isola piu’ o meno due milioni di anni fa e poi la natura ha fatto il suo meraviglioso lavoro lasciando un territorio verde e selvaggio, una costa oceanica frastagliata e qualche spiaggia. L’Isola di Pasqua e´ nota per le sue famose statue in pietra raffiguranti corpi e volti umani, i “moai”. Ne sono stati contati quasi 900 ma solo 288 sono stati trasportati e rieretti in quanto, nel corso dei secoli, la totalita e´ stata distrutta ed abbattuta. Altri 92 sono ora in fase di recupero. L’emozione del primo incontro con le statue e’ forte. Percorro tutta la costa Sud dell’isola ed arrivo in prossimita’ del piu’ vecchio vulcano, il Puakakite. Ora il vulcano e’ una spoglia collina di 370 metri d’altezza. Il panorama e´splendido: prati incolti, poche piante, cavalli allo stato brado che corrono e viste ardite sull’oceano. Tutto intorno sono distribuite le statue, e’ visitabile anche un luogo dove le statue venivano ricavate dalla roccia di origine vulvanica. Poco piu’ avanti, proprio di fronte all´oceano, un sito di straordinaria bellezza: Ahu Tongariki. Quindici statue allineate poggiate su una piattaforma di pietre, alcune hanno un cappello sulla testa. Dopo una pausa per il pranzo mi porto sulla costa Nord, al sito Te Pito Kura. Qui, lungo un tratto di scogliera nera, oltre a qualche statua, sono state raccolte alcune pietre magnetiche in grado di fare impazzire anche le bussole. Qualche kilometro piu’ a Nord si trova il sito chiamato Anakena dove sono state allineate cinque statue di cui quattro con cappello. Anakena e’ anche l’unica grande spiaggia dell’isola che si affaccia al mare azzurro e blu, alle spalle un gruppo di palme con qualche gallina che vi razzola attorno. Il giorno successivo visita ad Orongo, l’angolo all’estremo Sud dell’isola. La mattina fortissime raffiche di vento e pioggia incessante non ci permettono di completare l’escursione. Ritorniamo nel pomeriggio col sole, il cielo tornato azzurro ed un forte vento. Non bisogna mai dimenticare che qui siamo nel bel mezzo dell’oceano e che i venti la fanno da padrone cambiando il tempo rapidamente. Orongo si trova in prossimita’ del secondo vulcano, secondo la cronologia storica, di nome Rano Kau. Del vulcano e’ rimasto il grande cratere mentre al centro si e creato un lago. La vista e’ incantevole. Sulla punta estrema si trova il villaggio cerimoniale utilizzato fino ad un paio di secoli fa. Il villaggio e’ composto da basse case in pietra piu’ simili a delle grotte che a delle vere e proprie abitazioni. Dalla collina si vedono i famosi motu che ci ricordano il film Rapa Nui. Un grande isolotto roccioso, un faraglione ed uno scoglio, roccia scura priva di vegetazione che si staglia nel blu intenso del mare. Qui si svolgeva la famosa corsa annuale che terminava con la vittoria del “birdman”. La corsa consisteva nel scendere la ripida roccia, attraversare il braccio di mare su canoe molto primitive, scalare la roccia dell’isolotto, raccogliere il primo uovo di uccello, riportarlo a terra trasportandolo sulla testa. Il primo arrivato, il “birdman”, dava diritto alla famiglia di gestire il potere per l’anno successivo. Questa competizione ha avuto il merito di porre termine alle continue lotte tribali tra i diversi villaggi, lotte che si sono protratte per oltre due secoli. Scusate ma nel frattempo in Italia eravamo in pieno Rinascimento. Un interessante museo racconta la storia geologica dell’isola e la cultura del popolo moai. L’isola ha praticamente una sola citta’: Hanga Roa. Tranquilla e silenziosa, alcune piccole baie ed un piccolo porto per i pescatori, niente ferry, navi o battelli. Tutti trasporti si effettuano per via aerea, con la sola esclusione dei combustibili. Salendo dal porto, al termine della strada, la chiesa. Una costruzione piuttosto moderna, all’interno si trovano delle belle sculture in legno che fondano l’iconografia cristiana con lo stile locale. Mentre arrivo sento suonare le campane e vedo entrare uomini ben vestiti e donne eleganti con corone di fiori sulla testa. Si tratta di un battesimo secondo il rito cattolico, l’atmosfera ed i colori sono pero’ speciali.  Le mie serate ad Hanga Roa sono state tutte molto piacevoli: uno spettacolo di danze tradizionali, chiaccherate con del buon vino cileno e perfino una serata in discoteca terminata poco prima dell’alba. Buona la cucina locale, ovviamente a base di pesce e frutti di mare. Segnalo due ristoranti. A pranzo ho preferito Haka Honu, una terrazza con vista sull’oceano, un’insalata di mare, un tonno gratinato ed anche tagliatelle con gamberi. Per cena invece La Taverne du Pecheur con terrazza sul porticciolo e gestita da uno strano personaggio di origine francese, della Normandia. Frutti di mare saltati in padella, spaghetti (Divella mi precisa il francese) ai frutti di mare e l’ultima sera tonno grigliato con salsa di roquefort. Molto, molto buono. Il prodotto locale e’ stato ben accoppiato al gusto francese. Anche l’albergo e’ stata una scelta azzeccata. All’arrivo vengo accolto da Maria all’aeroporto, con me un turista francese, al collo una ghirlanda di fiori gialli e rossi per benvenuto. Maria prima di accompagnarci in albergo ci mostra tutta la citta’ indicando ristoranti e luoghi d’interesse. L’albergo e’ gestito da Blanca che per tutti e’ Blanquita, sempre molto gentile e disponibile. Gestisce anche un negozio di souvenir all’aeroporto, e’ lei che mi mette al collo una collana di conchiglie e perline per augurarmi l’arrivederci.

L’Isola di Pasqua – La Isla de Pascua – The Easter Island

Quando ero bambino rimanevo incantato dai documentari che raccontavano di viaggi in Africa e in luoghi esotici. Allora il mondo (foto e TV) era ancora tutto in bianco e nero. Sarà stato quello spirito trasmesso da mia madre (“a mi me pias andà in gir”) oppure la principale caratteristica del Sagittario (comunque io non credo ai segni zodiacali) ma quando vedevo queste immagini rimanevo affascinato. Le statue dell’isola di Pasqua mi sembravano magiche e irraggiungibili. Allora non avrei mai potuto immaginare di poter visitare l’Africa ed il mondo intero. Oggi invece, 16 febbraio 2016, alle ore 13, 01 atterro sull’Isola di Pasqua ! Ha dell’incredibile !!!

Incredibile anche dimenticare il PC sotto carica a Bora Bora , ma anche questo è successo !!!

Bora Bora, non solo il titolo di un film

Mi chiedo come sia possibile pensare una base navale militare qui a Bora Bora, solo gli americani potevano pensarlo. I francesi però non sono stati da meno, hanno usato gli atolli polinesiani per far scoppiare le loro bombe atomiche. Questo secondo episodio l’ho vissuto da ragazzo, ero già contro l’uso delle armi, figurarsi pensare all’atomica dopo Hiroshima e Nagasaki. E poi in luogo così bello, se la parola bello può bastare. Anzi non basta proprio ! Bora Bora fa parte delle Iles Sous le Vent. La caratteristica principale di queste isole è la loro conformazione. Tutte di origine vulcanica hanno un corpo centrale con picchi di basalto circondati dalla rigogliosa foresta pluviale. Tutto attorno si sviluppa un anello di isole e isolotti chiamati “motu”. I motu sono orlati di sabbia bianca di origine corallina e anch’essi hanno una fitta vegetazione. L’anello di motu racchiude la laguna che si caratterizza dall’acqua di colore turchese e verde chiaro, dai coralli e da un’alta presenza di pesci tropicali. I motu sono sostanzialmente il bordo del cratere che ha originato l’isola e che nei millenni è sprofondato ed anche risalito. Il risultato di milioni di anni di lavoro della natura è questo aspetto fiabesco, paradisiaco e, nonostante la forte presenza del turismo, incontaminato. Passo le prime due notti in un bungalow con un terrazzo in legno costruito sull’acqua turchese della laguna. La profondità è di circa 70 cm e vi si accede direttamente con una scaletta. Nella laguna quà e là rocce di corallo dove arrivano i pesci tropicali ad alimentarsi. Piscina sul mare e spiaggia non mancano. Faccio dello snorkeling e un pò di canoa in laguna. L’ultimo giorno mi prendo il “day pass” col quale raggiungo l’isola privata di fronte all’isola principale, un motu. Dieci minuti di barca a motore bastano per arrivare sull’isoletta con un nome un pò complicato: Motu Piti Uu Uta. Anche quì sala ristorante e bungalows, tutto della stessa catena alberghiera. C’è un sentiero che porta alla sommità della colllina dalla quale si gode uno splendido panorama a 360°. Di fronte si vede imponente, coi suoi picchi di origine vulcanica, l’isola madre (Bora Bora) e poi si spazia sulla laguna con i motu. All’orizzonte si può vedere la lunga linea di confine della laguna dove si infrangono le onde oceaniche. Una striscia bianca in continuo movimento che separa il blu del mare profondo dalla laguna verde, azzurra e turchese. Dal punto panoramico posso vedere molto distintamente Pointe Matira, una sottile lingua di terra che si insinua nel mare, il punto più meridionale di Bora Bora, dove passerò le altre due notti in una “pension” a gestione famigliare. Dopo la passeggiata ritiro pinne e maschera e mi immergo in prossimità del cosiddetto “Coral Garden”, sulla parte posteriore dell’isola, dove la concentrazione dei coralli è molto alta. Coralli significa flora ma anche tanta fauna. Anche quì tutte le specie di pesci tropicali, mi colpiscono alcuni pesci, non bellissimi, di colore marrone, che hanno l’abitudine di guardarmi negli occhi con un atteggiamento minaccioso, quasi per incutermi paura e dopo qualche secondo si allontanano. Molto belle sono quì le bivalve, piccole rispetto a quelle enormi della barriera corallina australiana ma con le labbra blu o violette. Passeggiando sulle passerelle che conducono ai bungalows costruiti sull’acqua noto alcuni piccoli squali (circa 40 cm) dal colore grigio molto chiaro col finale di pinna molto scuro. In acqua però non ho avuto la fortuna di incontrarli. Rientrato dall’isola vado direttamente a Pointe Matira presso la pension da Robert e Tina. Tre piccoli edifici bianchi, una cucina in comune, il giardino tropicale con fiori rossi e bianchi, palme con delle enormi foglie e cariche di cocco. E per finire una spiaggetta protetta da sassi porosi neri di origine vulcanica che si affaccia sulla laguna, all’orizzonte le onde dell’oceano. E questo è esattamente il panorama che vedo dal mio balcone al primo piano. La camera, pulita ma molto spartana, viene ricompensata dalla vista dove “lascerete il vostro cuore”, così scrive la L Planet. Di notte invece, sopra il mare, un mare di stelle, la Via Lattea e’ sempre molto visibile. Seguono due giorni di nuvole e scrosci di pioggia, non mi posso lamentare, è la sua stagione.

Tahiti et Moorea, les Iles du vent

Entro nel cortile della villetta e mi accoglie Tevai mentre sta grigliando un intero vitello. “Sei arrivato in un giorno speciale” mi dice “oggi è il primo compleanno di mio figlio, c’è da mangiare per trenta persone, c’è posto anche per te”. Il mio soggiorno a Papeete inizia così, con un invito, un pranzo in famiglia. Prendo possesso del mio appartamento, arredamento moderno, terrazza per metà piastrellata e per metà con un tappeto erboso, vista mare. In cucina c’è già tutto il necessario per cucinare: pasta e riso, olio e condimenti vari. Verso l’una mi sento chiamare, nell’appartamento in fianco la festa sta per incominciare. Tevai mi presenta la mamma, la moglie col bimbo, la sorella, il cognato, insomma una grande famiglia. La mamma mi vuole in fianco a lei, sull’altro lato il cognato col quale faccio lunghe chiaccherate. Il menu è molto tahitiano: si inzia col piatto più tradizionale, il tonno crudo con verdure condito con  sugo di cocco, il frutto dell’albero del pane grigliato, un’insalata di riso e il vitello. Papeete, dal mio punto di vista, è un pò deludente, francamente mi aspettavo qualcosa di più. Le due cose da segnalare sono il mercato e le “roulottes”. Il mercato municipale è una semplice struttura rossa, all’interno i banchi per la vendita ed una balconata con qualche negozio ed un ristorante dove mi fermo a mangiare uno spiedino di pesce. Molti banchi sono vuoti, il pesce è scarso ma si trovano sempre dei tranci di tonno rosso, verdure e frutta tropicale, un pò di artigianato locale. La sera è invece molto piacevole cenare presso le “roulottes”, così vengono chiamati i furgoni trasformati in cucine. Di fronte ad ogni “roulotte” ci sono tavolini e sedie di tutti i colori. La scelta dei piatti è molto varia, si passa dalla cucina locale a base di pesce alla cucina orientale (cinese e giapponese), si arriva in Francia con crepes e galettes (crepes salate) accompagnati da sidro, e c’è anche un pò d’Italia con la pizza con l’accento sulla a (alla francese). Le “roulotte” sono tutte sistemate di fronte al porto in Place Vaiete che di giorno è un piazzale assolato circondato da palme, verso sera incomincia ad animarsi e dopo le sette tutti son pronti ad offrire il cibo cucinato sul posto. Non si può raccontare Tahiti se non si parla delle donne locali, quindi escludiamo quelle di origine francese. Vi ricordate Marlon Brando ? Dopo aver girato gli “Ammutinati del Bounty” si è sposato con una tahitiana ma forse le più famose sono quelle ritratte da Gauguin. Sempre un pò grassoccie se non obese, le giovani però hanno curve sinuose. Belle o brutte, grasse o magre, tutte, o quasi, portano dei fiori tra i capelli e questo le rende molto più carine ed attraenti. Molti uomini sono invece esageratamente tatuati. E non si può dire di aver visto Tahiti se non si si è andati nella valle del Papenoo . Così afferma la guida che mi accompagna nella valle del fiume più importante dell’isola. La strada segue le insenature della costa poi cambia caratteristiche, il colore del mare è più blu e arrivano le onde sulle quali si esercitano i surfisti. Dopo una breve sosta in una piazzola panoramica sull’oceano (point de vue Tapahi) si svolta a destra e si incomincia a salire. La valle è piuttosto stretta, verdissima e piena di cascate. Dopo una decina di kilometri ci si ferma al Marae Vaitoare, un sito sacro costruito secoli fa con la pietra nera. La sosta successiva è lungo il fiume dove, dopo una piccola rapida, il Papenoo si apre e crea un piccolo laghetto. Proseguiamo per arrivare ad un punto panoramico. Qui siamo al centro dell’isola e cioè nel centro dell’enorme cratere (8 km di diametro) del vulcano che due milioni d’anni fa ha dato origine all’isola. A circa venti kilometri da Tahiti si trova Moorea, la raggiungo con un veloce catamarano, 45 minuti sono sufficenti per attraversare il braccio di mare che divide le due isole. Anche Moorea è di origine vulcanica quindi montagne verdi e picchi scoscesi, spiagge bianche ma anche sassi scuri. In taxi raggiungo Pao Pao, un villaggio distribuito lungo la litoranea, poche case, una scuola, negozi e qualche ristorante. Pao Pao si affaccia sulla baia di Cook, il capitano quì non centra assolutamente nulla però gli è stata dedicata la baia. Stretta e lunga, ricorda un fiordo e mi dà un feeling lacustre. Attorno però ci sono palme e banani, alberi del pane mentre l’acqua assume tutte le tonalità di blu e azzurro per diventare turchese verso il mare aperto. Per pranzo mi fermo al Te Honu Iti – Chez Roger, un ristorante con una terrazza in legno costruita sul mare. Mentre mangio degli “spaguetti de la mere” (spaghetti con tranci di pesce, gamberi ed una crema un pò troppo dolce) vedo passare delle pinne di squalo. Non riesco però a valutarne le dimensioni ma mi sembrano lunghi circa un metro. Ritorno verso il porto percorrendo qualche chilometro a piedi godendomi la vista dell’acqua turchese del mare e rientro al porto in taxi.

I’m a lucky man

Estate 2014. Sono alla guida di una Chevrolet Impala bianca, tetto aperto, sopra di me il cielo azzurro. Sono lungo un interminabile rettilineo che dal Colorado porta verso l’Arizona. L’autoradio è accesa ad alto volume, trasmette musica country, rock, gli hits degli anni ’60 e ’70. Poi arriva una canzone che non conoscevo: “I’m a lucky man”. Si, quella canzone me ne ha dato conferma. Nonostante tutto, nonostante i problemi della vita, nonostante i dolori profondi, io mi sento un uomo fortunato.
Un abbraccio da Tahiti